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Covid 19

La luce solare distrugge il coronavirus molto più velocemente di quanto previsto

Mettendo a confronto la teoria e i dati sperimentali sull’inattivazione del coronavirus SARS-CoV-2 da parte della luce solare, gli scienziati si sono resi conto che la distruzione delle particelle virali avviene molto più rapida di quanto previsto, fino a otto volte. Secondo i ricercatori potrebbe essere coinvolta l’interazione tra i raggi UVA e la saliva umana, e ciò potrebbe portare a nuove strategie per sterilizzare gli ambienti a rischio contagio.
A cura di Andrea Centini
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La luce solare inattiva il coronavirus SARS-CoV-2 molto più rapidamente di quanto previsto dai modelli teorici, pertanto deve essere in gioco un meccanismo chimico-biologico in grado di amplificare l'azione dei raggi del Sole. In base ai calcoli degli scienziati, infatti, i raggi UVB (ultravioletti con una lunghezza d'onda media, tra i 315 e 280 nanometri) sono fino a otto volte più efficaci e rapidi nel distruggere le particelle virali del patogeno pandemico rispetto a quanto previsto dalla teoria; a potenziarli potrebbe esservi l'interazione del “mezzo” in cui sono sospese le particelle del coronavirus – ovvero le goccioline di saliva umana – con i raggi UVA, ultravioletti meno energetici con una lunghezza d'onda compresa tra i 400 e i 315 nanometri. Sono già noti per le proprietà antivirali nel controllo delle acque reflue.

A determinare che il coronavirus SARS-CoV-2 è più sensibile alla radiazione ultravioletta di quanto previsto è stato un team di ricerca internazionale guidato da scienziati dell'Università della California di Santa Barbara, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi dell'Istituto per l'Ingegneria Ambientale dell'Eidgenössische Technische Hochschule di Zurigo (Svizzera), del Dipartimento di Matematica dell'Università di Manchester e del Translational and Integrative Sciences Center – Dipartimento di Tossicologia Molecolare dell'Università Statale dell'Oregon. Gli scienziati, coordinati dal professor Paolo Luzzatto-Fegiz, docente presso il Dipartimento di Ingegneria Meccanica dell'ateneo statunitense, hanno gettato le basi della propria ricerca a partire dai risultati dello studio “Simulated Sunlight Rapidly Inactivates SARS-CoV-2 on Surfaces” pubblicato nel luglio del 2020 sul The Journal of Infectious Diseases. I ricercatori guidati dalla professoressa Shanna Ratnesar-Shumate del National Biodefense Analysis and Countermeasures Center (Maryland) determinarono che il 90 percento delle particelle virali del SARS-CoV-2 veniva eliminato in 6-8 minuti nella saliva simulata e in 14 minuti in terreni di coltura, in condizioni ambientali paragonabili a una soleggiata giornata estiva (a mezzogiorno).

Questi risultati, se confrontati con la teoria descritta nello studio “Estimated Inactivation of Coronaviruses by Solar Radiation With Special Reference to COVID‐19” del Dipartimento della Difesa statunitense, indicano che la velocità di inattivazione del coronavirus SARS-Cov-2 è molto più rapida di quanto atteso. In parole semplici, la teoria prevede che i raggi UVB interagiscano con l'RNA del patogeno e lo distruggano dall'interno, ma tale processo sarebbe molto più lento delle tempistiche osservate sperimentalmente. Basti pensare che il SARS-CoV-2 è risultato tre volte più sensibile ai raggi UV rispetto al virus dell'Influenza A, e come indicato, in estate, nel giro di una mezz'ora viene quasi completamente inattivato (in inverno le particelle virali possono invece resistere per giorni, proprio per la ridotta radiazione solare). La discrepanza tra risultati attesi e i dati sperimentali ha spinto il professor Luzzatto-Fegiz a indagare a fondo sul possibile meccanismo, che potrebbe essere correlato all'interazione con i raggi UVA, proprio perché i raggi UVB da soli non sarebbero sufficienti (gli UVC vengono invece filtrati).

“La gente pensa che gli UVA non abbiano molto effetto, ma potrebbero interagire con alcune delle molecole del mezzo”, ha dichiarato lo scienziato in comunicato stampa, riferendosi alla saliva umana. “Quelle molecole intermedie reattive a loro volta potrebbero interagire con il virus, accelerando l'inattivazione. È un concetto familiare a coloro che lavorano nel trattamento delle acque reflue e in altri campi della scienza ambientale”, spiegano gli autori dello studio. “Gli scienziati non sanno ancora cosa sta succedendo. La nostra analisi indica la necessità di ulteriori esperimenti per testare separatamente gli effetti di specifiche lunghezze d'onda della luce e composizione media”, ha aggiunto Luzzatto-Fegiz. Se le goccioline di saliva con le particelle virali fossero così suscettibili alla combinazione di raggi UVA e UVB, si potrebbero approntare nuove strategie per favorire la sterilizzazione degli ambienti, senza dover passare per i più energetici UVC, che possono creare danni alla nostra salute. “Gli UVC sono ottimi per gli ospedali – ha dichiarato la coautrice Julie McMurry – ma in altri ambienti, ad esempio cucine o metropolitane, i raggi UVC interagirebbero con il particolato per produrre ozono nocivo”. Gli autori dello studio suggeriscono l'utilizzo di lampadine UVA a basso costo, da installare ad esempio su mezzi pubblici e altri luoghi a rischio contagio, ma dovranno essere condotte ulteriori indagini per tutte le conferme del caso. I dettagli della ricerca “UVB Radiation Alone May Not Explain Sunlight Inactivation of SARS-CoV-2” sono stati pubblicati sulla rivista scientifica The Journal of Infectious Diseases.

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