Nel luglio 2011, quando Brian McQuinn, dopo 18 ore di viaggio in barca da Malta, ha raggiunto il porto libico di Misurata, la sanguinosa rivolta contro il dittatore libico Muammar Gheddafi era già in corso da cinque mesi. Il suo obiettivo era quello di entrare in contatto con i gruppi ribelli e seguirli nelle battaglie, studiando come sfruttavano la forza dei rituali per creare solidarietà, lealtà e coraggio in mezzo a una costante violenza. Il ricercatore è rimasto con i ribelli per sette mesi, compilando un caso studio straordinariamente vicino e personale su come si è evoluta la ritualità attraverso il combattimento e la vittoria finale. Il suo lavoro era solo parte di un progetto molto più grande – "Ritual, Community and Conflict", finanziato fino al 2016 dal Comitato economico UK and Social Research Council (ESRC), allo scopo di studiare il rito, la comunità e i conflitti.
I rituali sono una parte essenziale dell'umanità
Preghiera, lotta, danza, canto: comprendere i rituali umani per far luce sulle origini e lo sviluppo della civiltà. “I rituali sono il collante che tiene insieme i gruppi sociali", spiega Harvey Whitehouse, antropologo a Oxford, che guida un team di specialisti provenienti da 12 università del Regno Unito, Stati Uniti e Canada. La struttura dei rituali varia enormemente passando dalla recita di preghiere in chiesa alle iniziazioni spesso cruente e umilianti, alle dimostrazioni di fraternità ai College americani, al ferimento dei genitali con rasoi di bambù e incisivi di suino, fino ai rituali di purezza della tribù Arapesh Ilahita della Nuova Guinea. Ma qualunque sia il gesto eclatante, dietro la ritualità si cela sempre lo scopo di costruire la comunità, il che la rende ovviamente parte focale dello studio per comprendere come la civiltà stessa ha avuto inizio.
Riti umani: modalità dottrinale e modalità immaginifica
Uno dei principali obiettivi dell'indagine è quello di verificare la teoria di Whitehouse per la quale i rituali sono disponibili in due categorie principali con diversi effetti sul legame del gruppo. Azioni di routine quali le preghiere in chiesa, moschea o sinagoga, o il pegno di fedeltà recitato in molte scuole degli Stati Uniti, sono rituali che operano in quello che Whitehouse chiama la “modalità dottrinale”. Questi rituali, che possono essere facilmente trasmessi a bambini e stranieri, sono ideali per forgiare religioni, tribù, città e nazioni – strutture sociali fondate su un’ampia comunità che non è legata da contatti costanti faccia a faccia. Diversi e molto meno frequenti, invece, sono i rituali della “modalità immaginifica”, che comprendono comportamenti traumatici quali percosse e auto-mutilazioni. Sempre secondo Whitehouse, i rituali di questa categoria, al contrario di quella “dottrinale”, creano fortissimi legami tra coloro che li vivono insieme. Ciò li rende particolarmente adatti a creare piccoli gruppi fortemente impegnati, come sette, plotoni militari, gang o cellule terroristiche. "Con la modalità immaginifica, non troviamo mai gruppi delle stesse dimensioni, uniformità, centralizzazione o struttura gerarchica che caratterizza il modo dottrinale," spiega l’antropologo.
Rebel Yell!
Fino a poco tempo fa, però, la teoria è stata in gran parte basata su pochi studi di casi etnografici e storici. L'attuale progetto è uno sforzo da parte di Whitehouse e del suo team di esperti per far luce con dati più sistematici e un approccio scientifico, come quello effettuato sul campo in Libia da McQuinn. La sua strategia era quella di vedere – a fronte di routine e pratiche quotidiane – come le caratteristiche che definiscono le modalità immaginifica e dottrinale siano emotivamente intense nelle esperienze condivise tra un numero limitato di persone rispetto alle grandi comunità. Un esempio è rispecchiato proprio nel caso della Libia, dove piccoli gruppi armati ribelli hanno affrontato grandi masse. McQuinn ha intervistato più di 300 perone provenienti da 21 di questi gruppi di ribelli, che variavano nel numero da 12 a poco più di 1.000 membri. Ha scoperto che le brigate più piccole tendevano a instaurare fra loro legami emotivi e personali molto intensi. Ciò le rendeva più coese ed impegnate nel perseguire gli scopi e gli ideali in una guerra civile combattuta nelle strade di Misurata fra paura ed eccitazione. Il lavoro di McQuinn e Whitehouse con i combattenti libici sottolinea come piccoli gruppi possono essere strettamente fusi dal trauma della guerra in comune, così come i rituali immaginifici possono indurre terrore per ottenere lo stesso effetto.
Nella psiche del rituale
Harvey Whitehouse, insieme alla psicologa Cristine Legare, si sono posti una domanda che indaga le basi dei comportamenti rituali nell'essere umani "Cosa ci spinge ad imitare dei comportamenti – a maggior ragione se effettuati da una folla – spesso senza nemmeno chiederci il motivo e il fine di tali azioni.
Immaginate di essere un bambino di cinque anni messo a sedere a un piccolo tavolo con un assortimento di strani oggetti, luccicanti ed interessanti. L'istinto è di prenderli e giocare con loro, ma prima vi viene fatto vedere un video, dove una donna ha davanti a sé una serie identica di oggetti e inizia ad agitarli, muoverli, sbatterli sul tavolo. Dopo qualche minuto, il video viene spento ed è il vostro turno. Se tu fossi un bimbo di cinque anni, imiteresti – senza nessuna istruzione – almeno uno dei comportamenti che hai osservato nel video. Dal punto di vista dei due scienziati, avresti adottato quella che loro chiamano “la posizione rituale”, ovvero imitazione senza mettere in discussione la finalità delle azioni. Se la donna mette l'ultimo oggetto in una scatola, sembra che l'intera procedura osservata nel video era solo un modo “stravagante” di mettere un oggetto all'interno del contenitore. Per gli scienziati questa rientra sotto la “condizione strumentale”. D'altra parte, se agli oggetti vengono fatti fare tanti movimenti e spostamenti per poi essere riposizionati al punto di partenza, sembra che l'intera sequenza non abbia alcuno scopo tangibile. Da un punto di vista psicologico, in questo caso si tratta di una “condizione rituale”. In questa seconda situazione, i bambini sono più sicuri che la dimostrazione che hanno visto nel video vada interpretata come una sorta di rituale. E indovinate un po'? Essi la copiano molto più fedelmente e sono meno inclini a provare variazioni di propria iniziativa.
La ritualità nell'evoluzione umana
Se dovessimo elencare le caratteristiche evolutive dell'essere umano, potremmo citare la nostra formidabile abilità linguistica, il nostro senso morale e la nostra capacità di invenzione creativa senza pari. Tutti questi elementi hanno senza dubbio fatto la loro parte nel renderci la specie dominante a livello globale. Condividiamo idee e le trasmettiamo di generazione in generazione, aumentando il bagaglio culturale della specie. Formiamo fitte comunità e arriviamo al punto di plasmare l'ecosistema a nostro piacimento. Ma un fattore altrettanto importante per il successo della nostra specie – dei primati in generale – è stata la nostra precisa capacità di imitazione, coadiuvata da un'infanzia più lunga rispetto a quella degli altri animali. Copiare gli altri è ciò che crea la possibilità stessa di cultura complessa, e l'imitazione culturale è una caratteristica umana universale.
I popoli in tutto il mondo s'impegnano in attività rituali per ogni sorta di ragioni: per comunicare con il divino, per indicare le modifiche dello stato, per seppellire i morti, e, talvolta, per una ragione che nessuno ricorda più. Non importa quale sia l'obiettivo, non c'è alcun processo di causalità evidente: è sufficiente fare le cose in questo modo, e questo è tutto.