L’universo si è evoluto per ospitare la vita?
Quando ci soffermiamo a pensare a quanto complesso sia l’organismo umano, viene sempre da chiedersi come sia stato possibile che la vita si sia evoluta da una molecola di DNA a una struttura incredibile come l’essere umano, il cui solo cervello ospita tante cellule quante sono le galassie presenti nell’universo conosciuto. E quando ci soffermiamo a pensare a quanto improbabile sia l’emergere della vita – tanto improbabile che finora non conosciamo altri esempi, nel cosmo, di forme di vita come noi la conosciamo – viene spontaneo domandarsi se non esista un limite alla mera casualità. È quel che si domandano da decenni diversi scienziati e filosofi uniti nello sforzo di spiegare il fatto che l’universo sembra “fatto apposta” per ospitare la vita facendo a meno della scomoda “ipotesi Dio”, come la definiva Laplace. Insomma, è possibile conservare la fede scientifica nella pura casualità come motore del passaggio dal semplice al complesso, dal Big Bang alla vita umana, riuscendo al tempo stesso a spiegare perché siamo qui? Qualcuno ha provato a rispondere avanzando teorie che vanno dal lapalissianismo del cosiddetto principio antropico debole – il nostro universo è così perché se non fosse tale noi non saremmo qui a parlarne – al finalismo del principio antropico forte, secondo cui esiste un proposito cosmico che ha nella nascita della vita intelligente il suo fine ultimo. Diversi anni fa, il fisico teorico Lee Smolin ha provato a mediare queste due posizioni con la teoria della “selezione naturale cosmologia”, esposta nel best-seller La vita del cosmo e ora ripresa da due ricercatori dell’Università di Oxford in un articolo in uscita sulla rivista “Complexity”.
La vita del cosmo
L’idea è semplice: gli universi si evolvono alla stessa stregua degli organismi biologici; anche a livello cosmologico, dunque, si applica il principio della selezione naturale previso dalla teoria evoluzionistica. Immaginare l’universo come un organismo biologico è un po’ azzardato, riconosceva Smolin – oggi al Perimeter Institute di Waterloo, Canada – nel suo libro, pubblicato nel 1997. Ma è un’ipotesi in linea con teorie come quella famosissima di Gaia elaborata dal biochimico James Lovelock, secondo il quale la Terra va intesa come un organismo capace di autoregolarsi: non cosciente, certo, ma in qualche modo “vivo”. Sarebbe molto strano, riconosceva Smolin, se tra tutti gli universi possibili l’unico emerso dal Big Bang fosse stato proprio questo: un universo retto da circa 30 parametri casuali (i cui valori, cioè, non hanno spiegazione), così stringenti che la variazione di un solo valore decimale in uno di essi avrebbe impedito la nascita della vita. Ma diventa più facile accettare questa straordinaria fortuna cosmica se immaginiamo che di universi ce ne siano più di uno.
La teoria del multiverso è in effetti oggi di moda. Diverse ragioni portano fisici e cosmologi a concordare sul fatto che il nostro potrebbe essere solo uno di infiniti universi. Ma Smolin si spinge oltre e immagina che questi universi non siano slegati tra loro, ma strettamente connessi da rapporti di filiazione. Alla base della sua idea c’è il concetto di “singolarità”. La singolarità è un luogo previsto dalla relatività generale in cui tutte le leggi della fisica vengono meno. Questo luogo è esistito all’inizio dell’universo ed è noto come “singolarità cosmologica”: l’atomo primordiale esploso nel Big Bang. Esistono tuttavia ancora oggi nel nostro universo altre singolarità. Sono quelle al centro dei buchi neri: distorsioni estreme dello spazio-tempo prodotte dal collasso gravitazionale di stelle di massa enorme, diverse volte quella del nostro Sole.
Figli della singolarità
Le singolarità al centro dei buchi neri sono forse identiche a quella all’origine dell’universo. Smolin ipotizza quindi che ciascun buco nero costituisca l’inizio di un altro universo da qualche parte nell’infinito multiverso. La singolarità al suo centro darebbe vita a un nuovo Big Bang. Ma l’universo che emergerebbe da questa singolarità non sarebbe identico al nostro: differirebbe di qualche minimo valore nei parametri delle leggi fondamentali (qui famosi 30 parametri che rendono tale il nostro universo), esattamente come nostro figlio differisce da noi per una mera manciata di geni del nostro codice genetico. Ogni nuova generazione, negli esseri viventi, diverge dalla precedente per pochi geni, che variano in modo casuale. Allo stesso modo, ogni nuovo universo, pur nascendo da uno precedente, è diverso per pochi parametri fondamentali, che variano in modo casuale.
Ma su tutto si staglia il principio della selezione naturale. L’evoluzione fa sì che solo gli esseri viventi che hanno acquisito un vantaggio competitivo siano destinati a sopravvivere sul lungo periodo. Gli esseri umani più forti e più adatti a sopravvivere alle difficili condizioni di vita sul nostro pianeta sono quelli che hanno visto la loro prole sopravvivere e riprodursi a sua volta. Ciascuno di noi discende dagli esemplari più adatti vissuti sulla Terra, in grado di sopravvivere alla ferrea legge della selezione naturale. Così accade anche per gli universi. Il vantaggio evolutivo, per un universo, è dato dalla sua capacità di riprodursi. Tanto più un universo può produrre altri universi-figlio, tanto più questo tipo di universo si diffonderà nel multiverso. Avremo così una miriade di “universi-fenice”, che nascono e muoiono senza produrre né stelle, né galassie, perché i loro parametri di partenza non lo consentono. Alla fine del loro arco di vita, si contraggono e ritornano alla singolarità iniziale, dal quale emerge un altro universo. Ma in almeno uno di essi i parametri casuali permetteranno la nascita e l’evoluzione delle stelle. Una di esse finirà per contrarsi, al termine della sua vita, dando vita a un buco nero: un nuovo universo-figlio. Un universo dotato di miliardi di buchi neri è quindi, dal punto di vista della selezione naturale, l’universo dotato del miglior vantaggio evolutivo. La selezione naturale cosmologica, dunque, secondo Smolin, conduce inevitabilmente alla diffusione di universi dove possono nascere le stelle e dove queste possono poi produrre buchi neri a volontà.
Vite di scarto (dei buchi neri)
La vita, allora, sarebbe un mero sottoprodotto della selezione naturale cosmologica. La vita non potrebbe esistere in un universo senza stelle e pianeti. Ma poiché esiste un vantaggio evolutivo nell’avere un universo i cui parametri abbiano valori tali da permettere la nascita delle stelle, gli universi come il nostro saranno nient’affatto rari, come finora ipotizzato, ma al contrario estremamente comuni. E consentiranno quindi, come conseguenza di minore importanza – dal loro punto di vista – la nascita e l’evoluzione di forme di vita come la nostra. Anche se la tesi di Smolin non ha riscosso il consenso di molti fisici e cosmolgi (per esempio, Stephen Hawking l’ha respinta a più riprese), è stata ora rianalizzata da due ricercatori di Oxford, un evoluzionista – Andy Gardner, del dipartimento di zoologia – e un fisico teorico, Joseph Conslon. A loro dire, l’ipotesi che l’universo abbia un fine, e cioè quello di massimizzare la produzione di buchi neri per “garantirsi la discendenza”, è congruente con la teoria di una selezione naturale cosmologica: l’equazione di Price, che spiega matematicamente il principio della selezione naturale darwiniana, si applicherebbe infatti anche al nostro universo, e ad infiniti altri. Resta tuttavia il problema di dimostrare la teoria dal punto di vista pratico: sfida questa ritenuta impossibile dai due studiosi, per la mancanza di altri esemplari di universi analizzabili alla luce della teoria delle selezione naturale cosmologica. Smolin ha comunque cercato di elaborare alcune predizioni dalla sua teoria, eventualmente verificabili sperimentalmente, come l’esistenza di un limite superiore nella massa delle stelle di neutroni (pari a non oltre due masse solari).
L’idea di un universo che si evolve alla stregua di un organismo biologico è apparsa a molti poco scientifica e molto “new age”. Ma nella visione di Smolin e dei fisici che l’hanno presa sul serio, si tratterebbe invece della migliore teoria scientifica possibile per risolvere il dilemma antropico senza tirare in ballo altre ipotesi che metterebbero in crisi la visione del mondo condivisa dagli scienziati, secondo cui la nostra esistenza non ha nessun impatto nella comprensione dell’universo. Se siamo qui, non lo dobbiamo né a un dio né a uno straordinario risultato del caso, ma ai buchi neri e alla loro capacità di produrre nuovi universi. Forse si tratta solo di una bella teoria senza alcuna valenza reale, ma immaginare che lassù tra le stelle vi siano i semi di nuovi universi rende il cosmo più vivo di quanto ci appaia.