In pratica, il trattato ha fatto poco per ridurre le emissioni di gas serra. Anche se la maggior parte delle nazioni ha rispettato gli accordi, il problema “effetto serra” continua a sussistere poiché il Protocollo non aveva fissato alcun limite per i Paesi in via di sviluppo. Le emissioni totali di gas serra sul pianeta stanno crescendo più velocemente che mai, dovute soprattutto all'aumento massiccio del consumo di carbone da parte della Cina e dei Paesi arabi. I dati delle risorse energetiche del mondo dimostrano quanto sarà difficile svezzare il pianeta dai combustibili fossili.
Come tristemente sappiamo, le riserve di carbone non sono illimitate e si stima che la loro disponibilità ai tassi attuali di consumo, si possa protrarre per un secolo. Fonti rinnovabili come l'energia solare ed eolica stanno crescendo più velocemente rispetto a qualsiasi altra fonte di energia, ma non sono ancora in grado di competere con il consumo di combustibili fossili. Queste tendenze energetiche globali e regionali rende chiaro che, anche con l'azione battagliera per ridurre il consumo energetico e le emissioni, i combustibili fossili domineranno il mercato ancora per molti anni.
Il Protocollo di Kyoto
Nel 1997, dopo 10 giorni di estenuante riunione, i delegati della conferenza sul clima a Kyoto raggiunsero finalmente un accordo sul clima conosciuto come il Protocollo di Kyoto. È stato il primo – e finora unico – patto che impegna i Paesi ricchi a ridurre le emissioni di anidride carbonica e altri gas serra. Kyoto ha riguardato la regolamentazione delle emissioni di quattro principali gas ad effetto serra: anidride carbonica, metano, protossido di azoto e l'esafluoruro di zolfo e, in misura minore, idrofluorocarburi e perfluorocarburi. Dalla stesura della prima riga è sempre stato chiaro che il Protocollo avrebbe dovuto fronteggiare un futuro roccioso. Anche se gli Stati Uniti avevano firmato il trattato, il presidente Bill Clinton ha segnalato che la più grande economia del mondo non avrebbe ratificato il patto, se la Cina e gli altri Paesi in via di sviluppo non avrebbero convenuto a limitare le loro emissioni. Purtroppo le ostinazioni da parte di questi Paesi erano molte. Quando il Protocollo di Kyoto entrò in vigore, nel febbraio 2005, non era ancora stato raggiunto un accordo riguardo le nazioni in via di sviluppo come la Cina e, quindi, gli Stati Uniti hanno ritrattato la loro adesione. I firmatari rimanenti – 37 Paesi sviluppati e quelli con le economie in transizione – si sono impegnati a ridurre le loro emissioni di gas serra ai livelli del 1990, ovvero in media del 4,2%, nel periodo dal 2008 al 2012.
Le nazioni sviluppate premono verso un nuovo trattato sul clima nel 2015. “Espandere il meccanismo delle imposte sul carbone a una parte maggiore del mondo sarà fondamentale per risolvere il problema.”, suggerisce il ricercatore in politiche del clima Michael Grubb. In questa ottica, invece di un vicolo cieco, Kyoto potrebbe rivelarsi essere il primo passo verso una soluzione finale. Proprio in questi giorni, quando il tempo del Protocollo di Kyoto è agli sgoccioli, sono stati aperti i lavori della 18ª Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP18) a Doha, capitale del Qatar. Sono oltre 17.000 i delegati (7.000 delle Organizzazioni non governative) provenienti da 194 Paesi che dibatteranno i problemi ambientali fino al 7 dicembre.
La responsabilità non è uguale per tutti
La crescita economica e industriale della Cina e di altri Paesi emergenti ha causato un'impennata del 50%, delle emissioni. Nell'incontro di Berlino del 1995, l'UNFCCC (Convenzione delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico), ha diviso il mondo in due categorie focalizzando un altro serio problema: da una parte i Paesi ricchi con responsabilità climatiche ambiziose e dall'altra una serie di economie meno sviluppate – tra cui la Cina – senza troppa consapevolezza in ambito ambientale. Questa decisione, che rientra nell'accordo conosciuto come il Mandato di Berlino, non ha incontrato il favore dei politici degli Stati Uniti. Nell'estate del 1997, Robert Byrd, senatore democratico del West Virginia ha dichiarato: “Il Mandato di Berlino che permette ai Paesi in via di sviluppo di astenersi dagli accordi, minaccia gravemente l'ambiente globale negli anni a venire."
Il Protocollo di Kyoto riporta anche altri difetti, che in un circolo vizioso ne limitano lo stesso successo. I Paesi ricchi hanno, infatti, la possibilità di rispettare i propri impegni di riduzione delle emissioni acquistando “quote di gas serra” da Nazioni che riescono a ridurre l'inquinamento più di quanto loro richiesto. Oltre a questo, i Paesi ricchi hanno la possibilità di ottenere un credito in questo ambito, se investono in tecnologie a basse emissioni nei paesi in via di sviluppo. Un tornaconto che alla fine va a discapito degli obiettivi di Kyoto.
Numeri che traggono in inganno
Fino al 2010, le emissioni di CO2 della Russia si sono abbassate del 34% e l'Ucraina le ha ridotte del 59%. Il Regno Unito ha facilmente raggiunto il suo obiettivo di riduzione del 12,5%, grazie alla chiusura di molte miniere di carbone e un corrispondente calo dei consumi. Più di recente, anche la crisi economica ha contribuito a ridurre le emissioni. Gli economisti stimano che tra il 2007 e il 2008, è diminuito il consumo di energia, causando un calo del 2% delle emissioni dei Paesi aderenti al protocollo di Kyoto. Teniamo presente però, che le riduzioni operate ai sensi del trattato, erano briciole in confronto all'aumento delle emissioni globali dei Paesi, soprattutto asiatici, che non avevano sottoscritto l'accordo. Dal 2000, le emissioni di CO2 in India sono raddoppiate e in Cina quasi triplicate, questo a causa, in parte, della migrazione dell'industria pesante da Paesi sviluppati ai Paesi in via di sviluppo.
Queste propensioni di consumo di energia hanno reso quasi impossibile limitare il riscaldamento globale a meno di 2°C, rispetto ai livelli preindustriali, valore scelto dall'Unione Europea come soglia critica per prevenire danni ambientali irreversibili. "Nessuno poteva aspettarsi che un regime climatico, che tratta la Cina come sub-sahariana e che esclude dal trattato 50 Paesi in via di sviluppo con un più alto reddito pro-capite, possa essere qualcosa di diverso da un cauto primo passo", dice Robert Stavins, economista ambientale presso la Harvard University di Cambridge, Massachusetts.
Adattiamoci a un mondo più caldo
Il più grande degli uragani atlantici, il recente Sandy, ha causato 50 miliardi di dollari di danni economici lungo la costa nord-est degli Stati Uniti, e fornisce un promemoria costoso di quanto, anche le nazioni più ricche, siano poco preparate nell'affrontare condizioni atmosferiche così estreme. Alcune recenti catastrofi climatiche sono state attribuite, almeno in parte, alle attività umane. Secondo il Gruppo Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (IPCC), tempeste, inondazioni e siccità colpiranno sempre più frequentemente e con maggiore forza il nostro pianeta.
"Per quanto i progressi per ridurre le emissioni siano rallentati, in molti Paesi vi è stata una svolta verso l'adattamento", afferma Jon Barnett, un geografo politico presso l'Università di Melbourne in Australia. L'adattamento tende a concentrarsi sulle difese dure, come la costruzione di dighe e barriere oceaniche, volte a diminuire il più possibile i danni.
Sempre più spesso, è gente del posto che decide come rendere la loro comunità più resistente, senza l'aiuto di un programma globale di adattamento ai cambiamenti climatici. Un approccio all'adattamento dall'alto verso il basso – concentrandosi su forti investimenti nel settore dell'ingegneria e delle infrastrutture – non funzionerà, perché è costoso e poco pratico. Saranno i singoli cittadini a doversi attrezzare per affrontare una natura sempre più scatenata con terremoti inondazioni e uragani, situazione dalla quale non si può tornare indietro.
Come sempre, il Terzo Mondo paga il prezzo più alto
Come tutti i Paesi del terzo mondo, l'Africa sub-sahariana è particolarmente vulnerabile ai cambiamenti climatici. Il Mozambico si distingue come uno dei più minacciati, con 2.700 chilometri di costa dove oltre la metà dei suoi 24 milioni di abitanti vivono in condizioni di povertà. Tra il 1965 e il 1998 il paese ha subito 12 grandi inondazioni, 9 gravi siccità e 4 cicloni. Situato alla fine di un sistema fluviale che si estende per più di 1.000 chilometri in altri paesi, il Mozambico può essere sorpresa da inondazioni senza alcun preavviso.
Nel 2000, il paese africano è stato colpito dalla peggiore alluvione della sua storia, che ha lasciato 700 morti e causato danni per un totale di quasi 300 milioni di dollari, pari significativa una parte del suo bilancio del momento. Il governo ha commissionato uno studio sugli impatti climatici nazionali e sta lavorando ad un piano a lungo termine di adattamento strategico. Ma gli sforzi per attuarlo saranno probabilmente ostacolati dalla mancanza di fondi e dalla burocrazia. L'esempio del Mozambico ci riporta a un quadro ripetitivo in molti parti del mondo, dove la popolazione è molta e povera e le infrastrutture sono scarse se non nulle. Nel 2011, le nazioni in via di sviluppo hanno ricevuto solo 960 milioni di dollari per l'adattamento ai cambiamenti climatici, ma una relazione del 2007 del United Nations Development Programme calcola che i Paesi in via di sviluppo avrebbe bisogno di 86 miliardi dollari l'anno entro il 2015 dei finanziamenti per fronteggiare le criticità.
Per le nazioni sia ricche che povere, la sfida è quella di convincere la gente e la politica ad agire prima che sia troppo tardi. Il trattato ha insegnato ai politici alcune lezioni importanti e forse ha gettato le basi per sforzi più ambiziosi. "Kyoto è stato un colossale esperimento di politica internazionale. Nonostante i suoi difetti, l'architettura generale è ancora utile", dice Roger Pielke Jr, studioso di energie e politiche politiche d'innovazione all'Università del Colorado. Kyoto è stato un grande esperimento con lezioni importanti da portare avanti. Le metodologie sviluppate per la comunicazione e la verifica delle emissioni di gas serra e dei suoli saranno componenti importanti di qualsiasi prossimo trattato sul clima futuro.