Italiani scoprono super anticorpi anti COVID: rischio di morte ridotto del 60% per chi li sviluppa
Scienziati italiani hanno scoperto anticorpi altamente protettivi contro la COVID-19, l'infezione causata dal coronavirus SARS-CoV-2; i pazienti che li sviluppano, infatti, hanno una probabilità di morire ridotta del 60 percento rispetto a chi non li ha. La scoperta di queste super immunoglobuline, grazie a una tecnica innovativa che è stata appena brevettata, non solo apre le porte a una migliore identificazione dei pazienti più a rischio, ma permetterà anche di mettere a punto nuove strategie terapeutiche ad hoc – ad esempio attraverso la creazione di anticorpi monoclonali – e di produrre vaccini sempre più efficaci.
A identificare gli anticorpi protettivi è stata una squadra guidata da scienziati dell'Istituto di ricerca sul diabete San Raffaele – IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi di altri dipartimenti del nosocomio e dell'Università Vita-Salute San Raffaele. Gli scienziati, coordinati dal professor Lorenzo Piemonti, docente presso l’ateneo meneghino, hanno ottenuto questo straordinario risultato sfruttando una tecnica normalmente utilizzata per studiare il diabete di tipo 1. Come tutte le malattie autoimmuni, il diabete di tipo 1 è una patologia in cui il sistema immunitario viene spinto ad aggredire le cellule dell'organismo stesso (in questo caso quelle che producono insulina), ed esattamente come avviene per una patologia infettiva, durante il processo vengono prodotti anticorpi specifici.
Proprio la metodologia utilizzata per andare a “caccia” degli anticorpi del diabete di tipo 1 – chiamata fluid-phase luciferase immune precipitation (LIPS) -, Piemonti e colleghi sono riusciti a rintracciare i super anticorpi nel sangue dei pazienti COVID. Nello specifico, hanno analizzato il sangue di 509 pazienti ricoverati al San Raffaele con diagnosi di COVID-19, più quello di altri 480 donatori, il cui sangue fu raccolto tra il 2010 e il 2012. Gli scienziati hanno caratterizzato varie classi di anticorpi (IgG, IgM, IgA) associate a una specifica componente della proteina S o Spike – quella usata dal virus per invadere le cellule – chiamata Receptor Binding Domain (RBD). Tra le immunoglobuline IgG (gli anticorpi neutralizzanti) che si legavano a RBD è stata individuata la classe più efficace; i pazienti che la presentavano, come indicato, avevano un rischio di morire ridotto del 60 percento rispetto agli altri.
“Tra i tanti anticorpi possibili, capire quali sono più efficaci per sconfiggere SARS-CoV-2 è fondamentale, perché sono quelli che vorremmo monitorare nei pazienti, vorremmo utilizzare a scopo terapeutico e di cui vorremmo sollecitare la produzione con un eventuale vaccino”, hanno dichiarato gli autori dello studio. La tecnica utilizzata per rintracciare gli anticorpi è così sensibile che gli autori dello studio l'hanno paragonata all'utilizzo del microscopio al posto di una lente di ingrandimento.
Piemonti e colleghi hanno anche scoperto che i pazienti che avevano contratto l'influenza in tempi recenti non avevano un rischio maggiore di morire per COVID-19, inoltre si è capito che le infezioni causate da altri betacoronavirus producono anticorpi che si attivano quando si viene infettati dal SARS-CoV-2. Gli scienziati intendono capire quanto questa risposta “crociata” del sistema immunitario possa essere legata all'esito clinico della COVID-19, che com'è noto spazia da una sintomatologia lieve o assente a un'infezione talmente grave da essere fatale. I dettagli della ricerca “COVID-19 survival associates with the immunoglobulin response to the SARS-CoV-2 spike Receptor Binding Domain”, condotta in seno a un grande studio clinico guidato dai professori Alberto Zangrillo e Fabio Ciceri, sono stati pubblicati sulla rivista scientifica specializzata Journal of Clinical Investigation.