Investire nel futuro e nel progresso: così creeremo milioni di posti di lavoro
Dalle nostre università escono ogni anno decine di migliaia di laureati. Studiano materie diverse, dall’ingegneria aerospaziale alla linguistica, dalla biologia molecolare alla filosofia della mente. Si addestrano a vivere in una società, la cosiddetta “società della conoscenza”, alla quale credono fermamente, per poi scoprire, usciti dalle aule con una laurea in tasca, che non era vero niente. Scoprono che in realtà vivono in un mondo dove chi li governa è nato in molti casi prima dell’ultima guerra, o comunque negli anni immediatamente successivi, in epoche in cui non esisteva Internet, né i computer, magari nemmeno la televisione. Persone che faticano ad abituarsi a un mondo nuovo, e che anzi cercano di riportarlo all’interno delle categorie a loro note, che risalgono agli anni ’70, forse agli ’80. Gli dicono che non c’è bisogno dei giovani che escono dalle università, ma solo di nuovi meccanici, idraulici, imbianchini, raccoglitori di pomodori, panettieri. Così l’Italia, e l’Occidente con essa, è entrata in una crisi dalla quale stenta a riprendersi. Così il nostro paese non ne uscirà mai.
Entrare nell'era post-industriale
La realtà è che il mondo è cambiato, nonostante molti vorrebbero convincersi (e convincerci) del contrario. Non abbiamo nulla a che vedere con il mondo dei nostri genitori, del quale dobbiamo conservare la memoria, ma senza idealizzarlo: perché oggi dopo tutto viviamo molto meglio. A partire dalla seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso, l’Occidente ha imboccato con decisione la strada della de-industrializzazione. I late comers, i paesi più arretrati, in quello stesso periodo avevano iniziato a lanciarsi a loro volta, con ritardo, nella corsa allo sviluppo industriale. I grandi capitali, riconoscendo l’esistenza di condizioni economicamente più vantaggiose in quei paesi, preferirono trasferire lì le proprie attività. La chiusura delle grandi industrie fu un momento di crisi ma anche una straordinaria opportunità: l’opportunità di sostituire al modello operaio-industriale che aveva caratterizzato l’Occidente fin dalla metà del XIX secolo con un modello economico concentrato sul terziario, e soprattutto sul terziario avanzato.
[quote|left]|La ragione strutturale di questa crisi è nella disoccupazione dei cervelli che dovrebbero andare a occupare, in Italia e in Europa, quei posti di lavoro nel terziario avanzato che invece vengono loro negati.[/quote]L’avvento delle nuove tecnologie, in quegli anni, sembrò avverare quel sogno. La new economy, favorita dalla diffusione esponenziale dei computer prima, di Internet poi, trascinò il Primo Mondo verso un nuovo tipo di società, che comportò la perdita di decine di migliaia di posti di lavoro, ma anche la creazione di 2,5 milioni di nuovi occupati. Ciò che conta, in questo caso, non sono solo i numeri, ma la qualità: quei 2,5 milioni di nuovi occupati fanno parte del terziario avanzato, il frutto dell’istruzione superiore, di tipo scolastico e universitario; mentre i posti di lavoro persi provenivano perlopiù dall’industria e da un terziario obsoleto. La bolla della new economy, come sappiamo, è scoppiata nel 2000 e da allora ha avvitato l’Occidente in una crisi con alti e bassi, di cui quella attuale rappresenta senza dubbio il momento più critico fino a oggi. La ragione strutturale di questa crisi è nella disoccupazione dei cervelli che dovrebbero andare a occupare, in Italia e in Europa, meno negli Stati Uniti (che infatti sono già usciti dalla crisi, anche se con le ossa rotta), quei posti di lavoro nel terziario avanzato che invece vengono loro negati.
Se lo Stato non investe nel futuro
Il problema è che la classe politica in Europa non investe come dovrebbe in ricerca e sviluppo. Non investe grandi capitali nell’innovazione e nel progresso, che sono invece le chiavi della nuova crescita economica, che in Occidente non può certo più basarsi sullo sviluppo industriale, ormai delegato ai paesi in via di sviluppo, che sono più competitivi perché offrono salari più bassi, gli stessi che noi offrivamo un secolo fa, e che oggi nessuno di noi accetterebbe più. Siamo stati allora abituati a credere che il problema siamo noi, vissuti nell’epoca del benessere, garantito dai nostri genitori, che ci ha abituati a rifiutare l’idea di lavorare in una fabbrica dieci ore al giorno prendendo poco e godendo di scarse tutele. Se vediamo la FIAT delocalizzata in paesi meno avanzati, ci chiediamo se dopo tutto non abbiamo perso noi, cittadini troppo viziati, subito sostituiti con lavoratori più disponibili provenienti dai late comers. Erano più lenti e ci hanno superati.
La logica stringente di questo ragionamento ci impedisce di guardare alla realtà dei fatti, e cioè che alla de-indutrializzazione dell’Europa deve far seguito l’avvento di un nuovo modello economico basato sulla produzione dei servizi. Questo modello economico nuovo, troppo nuovo per rientrare negli schemi arretrati degli economisti, è ancora lontano dal realizzarsi perché lo Stato, gli Stati, il potere pubblico, non si è ancora convinto a investire con determinazione in questo obiettivo. Eppure, l’unico modo per uscire dalla crisi è convincersi a investire risorse crescenti, in termini di decine di miliardi di euro l’anno, nel progresso e nell’innovazione: in una parola, nel futuro.
Banda larga, efficienza energetica, economia all'idrogeno
A partire dalle piccole cose. Lo sviluppo della banda larga in Italia è sicuramente l’aspetto più indicativo. Là dove i capitali privati non si sono voluti spingere, perché portare la banda larga nei piccoli paesi, spesso di difficile accesso, che caratterizzano il nostro tessuto antropico, non è conveniente, dovrebbe arrivare lo Stato. Che però non si rende conto, per problemi strutturali della classe politica, del vantaggio di investire in questo sviluppo, che secondo l’Unione europea ci garantirebbe un aumento annuo dell’1,2% del PIL. Ampliare e potenziare la banda larga in tutto il paese vuol dire creare tra i 30mila e i 100mila nuovi posti di lavoro del terziario avanzato. E non è poco.
Un altro grande obiettivo è quello di investire nelle nuovi fonti di energia. Qui l’obiettivo deve essere comune a livello comunitario perseguendo gli obiettivi di Copenhagen, che vogliono la riduzione del 20% delle emissioni di gas serra rispetto ai livelli del 1990 e soprattutto un aumento della quota di produzione energetica da fonti rinnovabili per almeno il 20% del totale entro il 2020. Finora si è fatto poco, dilapidando enormi quote di capitale pubblico inseguendo la chimera del fotovoltaico. Il fotovoltaico non è la soluzione. È ora di dirlo chiaramente: è solo un palliativo, che può andar bene per abbattere i consumi elettrici delle abitazioni, ma non ha nessun rilievo nel limitare i consumi delle grandi industrie che consumano più energia, né ha qualche impatto sui mezzi di locomozione più inquinanti, auto e aerei in primis. È possibile che il solare, l’eolico e l’idroelettrico insieme coprano il 20% del nostro fabbisogno energetico di qui a pochi anni. Ma poi, aumentare questa percentuale sarà difficile, per non dire impossibile.
Investire risorse significative nell’economia all’idrogeno e nella fusione nucleare dovrà essere invece la sfida dell’Europa. In quei settori bisognerà investire ingenti capitali e il meglio dei nostri cervelli, ma il gioco varrà la candela: perché la nuova economia all’idrogeno, come sostiene Jeremy Rifkin, cambierà completamente la struttura della nostra società, e altrettanto farà, più in prospettiva, la fusione nucleare, liberandoci per sempre dalla costosissima dipendenza dai combustibili fossili. Significherà più ricchezza per famiglia, da immettere nel circuito economico, incentivando la crescita.
Lo spazio: nuove tecnologie, nuovi posti di lavoro
Ambiente, energia, Internet sono i settori dove l’investimento in ricerca e sviluppo può garantire maggiore crescita e aumento dei posti di lavoro ad alta professionalità. Ma bisogna credere anche nell’importanza di uno “scatto tecnologico” che potrà avvenire solo impegnandoci nella più ambiziosa impresa capace di produrre innovazione tecnologica: lo spazio. Il settore aerospaziale ci ha concesso alcune delle più importanti innovazioni che oggi diamo per scontate, dalla tv via satellite ai cellulari fino ai GPS. È ovvio che impegnarci con maggiore convinzione in questa impresa ci garantirà risultati oggi impensabili, e soprattutto aumenterà a dismisura i posti di lavoro. È noto che il programma Apollo che portò gli uomini sulla Luna giunse a dare lavoro a 400.000 persone nei soli Stati Uniti. Questi sono i numeri a cui dobbiamo ambire.
È chiaro che non cresceremo andando tutti a raccogliere pomodori e a fare gli idraulici. Chi sostiene che la carenza di lavoratori in questi settori sia un peso per l’economia, sbaglia. Dobbiamo preoccuparci molto di più di quei cervelli che dovrebbero essere occupati nel terziario avanzato e nell’industria ad alta tecnologia, e che invece sono a spasso, o emigrati. Sono loro che potranno trainare la nostra società verso un futuro diverso da quello immaginato dalle tradizionali ricette economiche, una società con basi nuove, realmente post-industriale, realmente guidata dalla new economy, realmente capace di dare lavoro ai giovani che escono dal sistema universitario e che hanno qualcosa da dire e da dare, che sono una risorsa e non, come vorrebbe oggi una retorica egoistica, un peso prodotto da una generazione viziata.