In un anno in Italia solo 5 casi di reinfezione tra 16mila positivi al coronavirus
A un anno dall'infezione da coronavirus SARS-CoV-2, le probabilità di restare nuovamente contagiati sono estremamente basse, pari allo 0,07 percento. Lo ha dimostrato un nuovo studio italiano che ha indagato sui casi di reinfezione verificatisi in Lombardia, la Regione più duramente colpita durante la prima, drammatica ondata della pandemia di COVID-19 nel nostro Paese. È importante sottolineare che la ricerca ha valutato un intervallo di tempo antecedente alla diffusione delle varianti di preoccupazione, caratterizzate da mutazioni di “fuga immunitaria” sulla proteina S come la E484K, rilevata in quelle brasiliana e sudafricana. Non a caso in Brasile – e in particolar modo nella città di Manaus – si è registrato un boom di reinfezioni proprio dopo l'emersione della variante P.1. Pertanto i risultati fanno riferimento principalmente al ceppo “selvatico” del virus originale di Wuhan.
A determinare che il rischio di essere reinfettati dal coronavirus SARS-CoV-2 è assai remoto è stato un team di ricerca dell'Ospedale Fornaroli di Magenta e dell'Azienda Socio Sanitaria Territoriale (ASST) Ovest Milanese. I ricercatori, coordinati dal professor Antonino Mazzone, direttore del Dipartimento di Area medica, Cronicità e Continuità assistenziale dell'ASST lombarda, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver condotto uno studio di coorte osservazionale su oltre 122mila risultati di tamponi molecolari. Entro un anno dall'avvio dell'indagine sono risultati positivi al test della reazione a catena della polimerasi (PCR) 15.960 tamponi, dei quali 1.579 durante il periodo di follow-up. Nello studio sono stati inclusi sia pazienti sintomatici che asintomatici con un'età media di 59 anni, tutti reclutati attraverso vari programmi di screening e tracciamento dei contatti.
Incrociando tutti i dati è emerso che soltanto 5 tra i pazienti coinvolti è risultato nuovamente positivo al tampone molecolare, ma nessuno di essi ha sviluppato una patologia “clinicamente significativa” (solo uno è stato ricoverato in ospedale). Ciò significa che il rischio di reinfezione in questa coorte, dopo aver aggiustato i dati per età, sesso ed etnia, è risultato essere soltanto dello 0,07 percento. L'intervallo medio della prima reinfezione, come dichiarato ad ADNKronos dal professor Mazzone, è stato di 230 giorni, poco più di 7 mesi e mezzo. A rendere ancor più significativo questo risultato, il fatto che quattro dei cinque pazienti risultati nuovamente positivi avevano uno stretto rapporto con ambienti sanitari (due vi lavorano, uno si è trasferito in una RSA e un altro riceve trasfusioni in ospedale settimanalmente), pertanto risultavano tutti particolarmente esposti al rischio di contagio. “Le reinfezioni sono state definite da una seconda positività alla RT-PCR oltre i 90 giorni dopo la completa risoluzione della prima infezione e con almeno due risultati consecutivi negativi del test tra gli episodi”, hanno scritto gli autori nell'abstract dello studio.
“Delle 13.496 persone che inizialmente non erano state infettate dal SARS-CoV-2, 528 hanno successivamente sviluppato un'infezione primaria”, ha specificato il professor Mazzone, dunque l"incidenza per 100mila abitanti risulta essere “pari a 1 per le reinfezioni, rispetto a 15,1 per le nuove infezioni”. “L'osservazione si è conclusa quando le varianti del coronavirus pandemico hanno iniziato a diffondersi nel nostro territorio – gli ha fatto eco il professor Pierangelo Clerici, presidente dell'Associazione microbiologi clinici italiani (AMCLI) – pertanto non possiamo stimare l'influenza di questa variabile sui risultati finali”. I dettagli della ricerca “Assessment of SARS-CoV-2 Reinfection 1 Year After Primary Infection in a Population in Lombardy, Italy” sono stati pubblicati sull'autorevole rivista scientifica Jama Internal Medicine.