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Il prezzo da pagare per l’allungamento della vita umana è la perdita della biodiversità?

Uno studio recentemente pubblicato da Science ritiene di aver individuato una correlazione tra la maggiore aspettativa di vita degli uomini e l’estinzione di molte specie.
A cura di Nadia Vitali
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Lonesome George
Lonesome George

Quando si è spento all'interno del Galapagos National Park, dove viveva ormai da decenni monitorato e coccolato, Lonesome George aveva raggiunto e superato il secolo di età: più o meno come si augura l'uomo moderno, protagonista di un mutamento epocale che sta portando l'aspettativa di vita ad allungarsi sempre più, in particolare per quei privilegiati benestanti che vivono nella parte "giusta" del mondo. La morte di Lonesome George fece notizia, varcando oceani e continenti, poiché quella pacifica ed inconsapevole tartaruga costituiva l'ultimo esemplare della propria specie (nome scientifico: Chelonoidis nigra abingdoni), decimata a partire dal XIX secolo dalla caccia e successivamente vittima dell'introduzione delle capre nel suo habitat. Il caso di George il Solitario costituisce una storia emblematica della lotta per la conservazione della specie che ai quattro angoli del Pianeta viene portata avanti da ricercatori e studiosi (invano si tentò di far accoppiare la tartaruga con delle femmine appartenenti a sottospecie definitivamente molto vicine alla sua): numerose sono le creature sempre più minacciate che rischiano di essere cancellate senza lasciare tracce.

Gli animali che rischiano seriamente l'estinzione aumentano sempre più, mentre le vite umane si allungano: quella che sembra una semplice considerazione sui tempi in cui ci troviamo a vivere sarebbe, secondo alcuni scienziati, il frutto di una correlazione ben precisa tra i due fattori. Precedentemente si è sempre puntato il dito contro gli elementi più evidentemente distruttivi per l'ambiente come deforestazione, coltivazioni intensive, flussi turistici diretti verso angoli di Pianeta che un tempo erano incontaminati: i dati di un recente studio sposterebbero invece l'attenzione su un altro aspetto fino ad ora non considerato, ossia sul costante allungamento dell'età media degli uomini, individuandolo addirittura come fattore determinante nell'ambito della perdita della biodiversità. Il lavoro è stato curato dai ricercatori della University of California di Davis e i risultati pubblicati dall'Ecology and Society journal. I dati degli scienziati evidenzierebbero una forte correlazione tra il numero di specie minacciate e l'aspettativa di vita media per gli esseri umani, quanto meno limitatamente ai Paesi oggetto d'analisi. Aaron Lotz, del Department of Wildlife, Fish and Conservation Biology, principale autore dello studio, ha spiegato come tale modello non possa essere il mero frutto della casualità.

La ricerca ha esaminato una combinazione di 15 variabili di matrice sociale ed economica, inclusa l'aspettativa di vita, in un centinaio di Paesi corrispondenti al 74% delle terre abitate e che raccolgono che raccolgono approssimativamente l'87% della popolazione. Tra i fattori considerati c'erano l'agricoltura e le modalità di coltivazione, le politiche di protezione delle aree selvagge, l'altitudine, la malnutrizione, il turismo; i ricercatori hanno analizzato la correlazione di questi ed altri ancora con specie di mammiferi ed uccelli invasive o, al contrario, minacciate rilevando come, ad esempio, in Nuova Zelanda si riscontrerebbe la più alta percentuale di specie invasive combinate con specie a rischio di estinzione, a causa della naturale penuria di mammiferi terrestri autoctoni sul territorio. A partire dalle ondate colonizzatrici degli ultimi due secoli, la Nuova Zelanda ha conosciuto una massiccia colonizzazione da parte di specie non indigene risultata catastrofica sulla perdita della biodiversità (non a caso, proprio in questo Paese è attiva da tempo una campagna il cui fine è ridimensionare la presenza dei gatti domestici). Al polo opposto si collocano le nazioni africane, con la più bassa percentuale di specie invasive e di mammiferi ed uccelli minacciati: Paesi che, del resto, esperiscono il commercio internazionale in maniera assai ridotta, limitando così le possibilità di "invasioni biologiche" involontarie e le cui popolazioni hanno un'aspettativa di vita molto più bassa rispetto ad altre nazioni.

Le percentuali di specie minacciate e invasive e l'aspettativa di vita in anni. (grafico di Ecology and Society journal)
Le percentuali di specie minacciate e invasive e l'aspettativa di vita in anni. (grafico di Ecology and Society journal)

Benché correlazione non significhi "causa-effetto", lo studio ha il merito di integrare i dati relativi alle specie minacciate (o che minacciano l'equilibrio degli ecosistemi) con una prospettiva più globale che include anche l'uomo tra le varianti e le variabili: «Abbiamo bisogno di iniziare a relazionare gli umani con l'ambiente, nelle nostre ricerche, cessando di lasciarli al di fuori dell'equazione. È necessario rendersi conto del nostro diretto legame con la natura» ha aggiunto il dottor Lotz. Certamente le trasformazioni che nell'ultimo secolo hanno segnato gli stili di vita degli esseri umani hanno finito per influire, più o meno direttamente, su altre creature che si sono viste perdute dinanzi alla forza crescente della nostra specie: ma è pur vero che la mancanza di equilibrio ha contrassegnato spesso scelte ed abitudini dell'uomo moderno. Le nuove prospettive che stanno maturando non soltanto nel mondo scientifico, per imparare ad approcciarsi alla natura non più soltanto come a qualcosa da sfruttare il più possibile, saranno forse la nuova strada per vivere anche noi a lungo come Lonesome George ma facendo in modo, al contempo, che non si assista più impotenti alla sparizione della ricchezza più grande di questo Pianeta eccezionale, la diversità.

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