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Il coronavirus resiste più a lungo alle basse temperature

Un nuovo studio conferma il più alto rischio contagio durante l’inverno: “Con le condizioni climatiche dei mesi più freddi, le particelle virali mantengono per più tempo la loro capacità di infettare”.
A cura di Valeria Aiello
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Rendering del coronavirus. Credit: KAUST; Ivan Viola
Rendering del coronavirus. Credit: KAUST; Ivan Viola

Le temperature fanno un’enorme differenza, in particolare quando si parla di coronavirus e della sua capacità di infettare. A riportare l’attenzione su uno dei temi più dibattuti di questa pandemia è un nuovo studio pubblicato sulla rivista Biochemical Biophysical Research Communications dai ricercatori dell’Università dello Utah che per primi hanno analizzato come la temperatura influenza la stabilità delle particelle di Sars-Cov-2, dunque la loro capacità di infettare nel tempo. “Ci aspettavamo che la temperatura facesse una differenza enorme, ed è quello che abbiamo osservato” dicono gli studiosi che hanno verificato la risposta a diverse condizioni di particelle simili a virus (VLP), ovvero particelle assemblate in laboratorio con gli stessi lipidi e proteine presenti sulla superficie di Sars-Cov-2, ma senza l’Rna messaggero che causa le infezioni. Un metodo che ha permesso agli scienziati di testare le particelle virali senza alcun rischio di contagio.

I ricercatori hanno esposto i campioni su lastre di vetro a varie temperature sia in condizioni di asciutto sia in presenza di umidità e, mediante tecniche di microscopia a forza atomica, hanno osservato i cambiamenti della struttura esterna delle particelle. Quando i campioni sono stati esposti a una temperatura di circa 33 °C per 30 minuti, la struttura esterna delle particelle si è degradata, indicando che un aumento moderato della temperatura è in grado di portare un drastico decadimento delle particelle  in entrambe le condizioni sperimentali, pur con effetto più marcato nei campioni direttamente esposti all’aria.

Al contrario, esponendo i campioni a una temperatura di circa 21 °C per 30 minuti, le particelle sono rimaste pressoché intatte, suggerendo che a temperatura ambiente o in condizioni climatiche più fredde, il virus è in grado di resiste più a lungo, dunque di mantenere la sua capacità infettiva per più tempo. Anche in questo secondo caso, le differenze tra i livelli di umidità hanno determinato differenze irrisorie, anche se gli scienziati hanno sottolineato che la percentuale di umidità può giocare un ruolo più importante quando le particelle si trovano sospese nell’aria, influenzando la velocità con cui l’aerosol di asciugano.

Quello che ci ha sorpreso – ha commentato Michael Vershinin, assistente professore presso l'Università dello Utah e co- autore senior dell’articolo – è di quanto poco calore sia stato necessario per denaturare le particelle – superfici calde al tatto ma non bollenti. Questo indica che la superficie esterna del virus è davvero molto sensibile alla temperatura. D'altra parte  i risultati suggeriscono che quando le temperature iniziano a scendere, così come accade nei mesi più freddi, le particelle sulle superfici rimarranno infettive più a lungo”.

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