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Covid 19

Il 20% dei morti per Covid è dovuto ad anticorpi “impazziti” che ostacolano la risposta immunitaria

Lo dimostrano due studi pubblicati su Science Immunology dal Covid Human Genetic Effort, un consorzio internazionale coordinato dal National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID), dalla Rockefeller University di New York e dall’Università di Parigi.
A cura di Valeria Aiello
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Dietro ai casi più gravi e fatali di Covid-19 ci sono cause genetiche e immunologiche in comune che determinano un livello insufficiente di alcune specifiche proteine, chiamate interferoni di tipo I (IFN), che hanno il compito di aiutare a regolare il sistema immunitario. È quanto emerge da due studi pubblicati sulla rivista Science Immunology dal Covid Human Genetic Effort, un consorzio internazionale di ricerca coordinato dal National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID), dalla Rockefeller University di New York e dall’Università di Parigi, cui ha contribuito anche l’Università di Milano-Bicocca, in sinergia con l’ASST di Monza, che hanno messo a disposizione i dati di un archivio elettronico relativo ai pazienti Covid ricoverati presso l’Ospedale San Gerardo di Monza.

Anticorpi "impazziti" dietro ai decessi per Covid

I due studi hanno evidenziato come questo difetto possa essere correlato sia a mutazioni del gene TLR7 all’interno del cromosoma X che è coinvolto nella produzione di IFN di tipo I, sia alla presenza di anticorpi “impazziti” (autoanticorpi) che attaccano queste proteine anziché il virus. Questi autoanticorpi, in particolare, sono presenti “in una misura mai vista per nessun’altra malattia infettiva acuta” ha affermato Jean-Laurent Casanova, capo del St. Giles Laboratory of Human Genetics of Infectious Diseases presso la Rockefeller University e autore senior dei due articoli – . Circa il 20% dei casi critici possono essere spiegati da questo difetto netto nell’IFN di tipo I”.

Gli autoanticorpi diretti contro l’IFN di tipo I, spiegano gli studiosi, sono già presenti nell'organismo prima dell’infezione da Sars-CoV-2, aumentano di prevalenza dopo i 60 anni e potrebbero essere usati come marcatore per selezionare i pazienti a rischio da trattare con anticorpi monoclonali. “Poiché è rapido ed economico testare gli autoanticorpi, l’implementazione di questo screening permette di identificare le persone che hanno maggiori probabilità di subire gravi infezioni – sostengono gli studiosi – . Gli individui che risultano positivi agli autoanticorpi dovrebbero avere la priorità per i vaccini, inclusa la terza dose di richiamo”.

Qualora contraggano l’infezione – aggiungono i ricercatori –  tali pazienti ad alto rischio dovrebbero essere ricoverati preventivamente in ospedale e dovrebbero ricevere anticorpi monoclonali o terapia con interferone”. Gli scienziati avvertono inoltre che le donazioni di plasma sanguigno dovrebbero essere sottoposte a screening per gli autoanticorpi ed essere escluse dalla donazione se contengono anticorpi ​​​​in grado di attaccare gli IFN.

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