Gelato, il più democratico tra i piaceri del palato
È noto a tutti come la tecnologia abbia reso disponibili sul grande mercato anche quegli alimenti che, un tempo, erano considerati esclusiva assoluta delle persone potenti e ricche: l'esempio più classico al riguardo è quello del cioccolato, oggi un piacere irrinunciabile per ciascuno di noi (oltre che depositario di infinite virtù per il corpo e per lo spirito), ma inizialmente gustato soltanto dai membri di classi privilegiate in Europa, fin dai tempi della sua importazione dall'America. Eppure, nel caso del gelato è assai probabile che il rinfrescante dessert favorito più o meno da tutti, soprattutto nei mesi estivi, venisse consumato già secoli addietro non soltanto alle corti dei sovrani o nelle case dei nobili ma anche dai comuni cittadini, quanto meno nel Sud Italia dove le alte temperature lo rendevano particolarmente gradito: del resto, a prescindere dall'impossibilità di verificare con precisione l'attendibilità storica dei racconti relativi alla sua origine, è opinione abbastanza diffusa che il gelato sia un prodotto tipico della penisola.
Gli storici che ricostruiscono i dettagli della cultura culinaria di un popolo, normalmente, si trovano ad affrontare la difficile sfida della scarsezza di testimonianze indirette: il cibo è un materiale effimero che, difficilmente, lascia traccia di sé ai posteri. Casi come Pompei ed Ercolano, dove i resti alimentari si sono bloccati nel tempo alla grande eruzione del 79 d. C. giungendo fino a noi, rappresentano l'eccezione e non la regola. Libri e ricettari come il testo classico della letteratura gastronomica romana De Re Coquinaria di Apicio sono di grande utilità per gli studiosi ma rappresentano, pur sempre, un punto di vista ristretto ed ascrivibile ad una classe istruita: così, come spesso accade con la storia, quello che riguarda i popoli e le persone comuni difficilmente può esser conosciuto per via diretta. Anche in questo caso, le poche annotazioni sulla preparazione del gelato, unite ai raffinatissimi manufatti utilizzati per questo provenienti da Capodimonte e Sèvres, hanno sempre fatto propendere per la tesi che tale pietanza fosse riservata a pochi.
Non è d'accordo la Dottoressa Melissa Calaresu, della prestigiosa University of Cambridge, che attraverso una ricerca sulle fonti dell'epoca, suggerisce che, già più di trecento anni fa, il gelato fosse un alimento estremamente "democratico", quanto meno nella città in cui si sono concentrate le ricerche della storica, Napoli, alla fine del XVIII secolo tra le più grandi metropoli europee, dopo Parigi e Londra: del resto il caldo estivo partenopeo rendeva la vendita del gelato un mercato assolutamente ampio e concorrenziale in grado di rispondere all'esigenza di refrigerio dei ricchi e dei poveri, dei napoletani e dei turisti. Lo sapeva bene Henry Swinburne, viaggiatore britannico che nel decennio 1780 annotava: «La passione per "l'acqua ghiacciata" è talmente grande e diffusa a Napoli che nessuno, eccetto i mendicanti, la berrebbero allo stato liquido; e io credo che una scarsezza di pane verrebbe sofferta meno violentemente rispetto alla mancanza di neve».
Neve con la quale già Nerone, secoli prima, mischiava della frutta fresca per gustare la prelibatezza gelata durante i suoi lunghi e fastosi banchetti: raccolta sulle alture, veniva custodita all'interno di grandi fosse, le neviere, dove era prima mescolata e lavorata dopodiché conservata grazie agli isolanti dell'epoca, primo tra tutti la paglia. L'arrivo dell'elettricità rivoluzionò l'intero sistema di preparazione e, da allora, non solo il gelato ma anche le granite e i sorbetti non hanno più avuto bisogno di copiose nevicate invernali. Ma fino a quel momento, tali conserve costituirono una risorsa indispensabile: a Napoli il ghiaccio era un prodotto che veniva acquistato e tassato, il suo prezzo era regolato e annotato sui registri, come accadeva per l'olio e per il sale. I venditori di gelati e sorbetti coloravano vivacemente le strade della città, convivendo assieme alle botteghe più raffinate, le sorbetterie, dove i più colti ed istruiti, tra un cucchiaio e l'altro, leggevano giornali, discutevano di politica e costruivano quel futuro che avrebbe preso il nome di Secolo dei Lumi.
In termini di relazioni tra i differenti strati della società, c'è una tendenza a confinare il consumo di quello che noi reputiamo un prodotto di lusso troppo strettamente ai gruppi di élite. Le fonti dell'epoca, invece, suggeriscono che c'era una mescolanza nonché una sovrapposizione tra classi in città come Napoli ben più grande di quanto ritenuto dagli storici comunemente.
Quando Napoli era la tappa obbligata del Gran Tour, il viaggio attraverso Italia, Francia e Grecia con il quale i rampolli delle famiglie aristocratiche europee perfezionavano le proprie conoscenze, i giovani fortunati si soffermavano non soltanto sulle bellezze archeologiche e naturalistiche che il territorio offriva ma sovente anche sui costumi locali, ai loro occhi più che mai interessanti quando non curiosi e, in ogni caso, estremamente differenti da quelli patri. E talvolta portavano a casa souvenirs come piccoli quadretti, le tipiche vedute ritraenti scene di vita anche popolare: attraverso alcuni di questi bozzetti era possibile vedere come i lazzaroni (ovvero gli appartenenti alle classi più povere), al pari dei nobili, mangiassero gelati. Al punto che secondo John Moore, un medico britannico che viveva a Napoli, la questione costituiva una vera e propria minaccia per l'ordine pubblico. Scriveva negli anni 1780: «Il lazzarone, sempre mezzo nudo, è spesso tentato di spendere le sue miserie destinate al mantenimento della famiglia in questa bevanda stregata, allo stesso modo in cui i poveracci londinesi spendono il proprio salario in gin e cognac».
Due ragazzacci scalzi che cercano di leccare un cucchiaio sporco di gelato da un venditore con i suoi secchi di legno nei pressi del Maschio Angioino, in un'incisione di Pietro Fabris datata circa 1773; o sempre un'incisione sul medesimo tema di Achille Vianelli (1803-1894), con il "gelataio" e il suo banco di vendita, due gentiluomini bene abbigliati con cappello che mangiano da un vasetto e un piccolo "mascalzone" a piedi nudi e con una gamba mancante dei pantaloni che mostra la sua bocca aperta colma di gustoso sorbetto. Immagini popolari di un'usanza comune che aggregava i membri di classi diverse attorno ad un piacere a tutt'oggi irrinunciabile: già secoli prima che arrivassero frigoriferi, coni in biscotto e, infine, confezioni cartacee, tutte ugualmente diffuse da un capo all'altro del Pianeta, terribilmente meno romantiche ma sempre amatissime in virtù di quell'amato sapore "ghiacciato".