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Diabete di tipo 1: e se non ci fosse più bisogno dell’insulina?

I ricercatori del MIT sono riusciti a realizzare un trattamento che permette ai pazienti che soffrono di Diabete di tipo 1 di non dover assumere insulina per 6 mesi.
A cura di Zeina Ayache
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Soffrire di Diabete di tipo 1 significa avere un sistema immunitario che attacca il pancreas del paziente e gli impedisce di controllare il livello di zucchero nel sangue al punto da indurlo in iperglicemia, una condizione che, non curata, può portare al coma. A provocare questo eccesso è l'assenza o la scarsità di insulina, un ormone, prodotto dalle cellule beta delle isole di Langerhans all'interno del pancreas, che ha proprio il compito di regolare l'utilizzo del glucosio. Soffrire di Diabete di tipo 1 significa quindi dover tenere sotto controllo la quantità di zucchero nel sangue iniettandosi insulina. A parole può sembrare semplice, ma la realtà è diversa e per questo i ricercatori del MIT stanno lavorando ad un nuovo tipo di trattamento più efficiente, efficace e pratico.

Nello specifico, spiegano i ricercatori, il trattamento a cui stanno lavorando parte dalla consapevolezza che, per regolare l'attività dell'insulina e la diffusione del glucosio, basterebbe rimpiazzare le cellule beta delle isole di Langerhans distrutte e, a quanto pare, riuscirebbe a superare i limiti del passato, cioè la reazione del sistema immunitario che distrugge le cellule trapiantate, con il conseguente obbligo di assunzione di farmaci immunodepressori.

Insomma, il MIT, con la collaborazione del Boston Children’s Hospital e di altre istituzioni, è riuscito a trovare una soluzione per trapiantare le isole di Langerhans senza effetti collaterali. Gli scienziati hanno infatti creato un materiale che può essere utilizzato per incapsulare le isole di Langerhans (funzionanti) prima di trapiantarle nel paziente. Test di laboratorio sui topi hanno mostrato che, così facendo, le nuove cellule incapsulate riescono a tenere sotto controllo il diabete per 6 mesi, senza indurre il sistema immunitario a reagire contro di loro.

Ovviamente sono necessari ulteriori studi prima di poter introdurre un simile trattamento nei sistemi sanitari nazionali, però il potenziale c'è e i ricercatori non sembrano essere intenzionati ad arrendersi.

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