Così morì Jurj Gagarin: la verità sulla fine del primo uomo nello spazio
La morte di quel giovane "uomo delle stelle" non poteva essere un comune incidente come tanti altri: il bicchierino di vodka in più, la manovra riuscita male, l'attacco di panico, erano tutte ipotesi che stridevano con la statura della figura eroica che, con la sua storica impresa, aveva consolidato la sua fama ben oltre la cortina di ferro. Jurj Gagarin scomparve il 27 marzo del 1968, all'età di 34 anni, schiantandosi con un piccolo aereo MiG-15 a circa 90 chilometri da Mosca, durante un volo di routine; ma la nube di mistero che ha avvolto la sua morte nei mesi e negli anni successivi al drammatico impatto non ha mai consentito alla memoria del cosmonauta di trovare la pace della verità. Sono stati scomodati complotti di ogni tipo (unitamente agli immancabili UFO) nel tentativo di dare una risposta all'interrogativo: cosa accadde negli ultimi istanti di vita di quel ragazzo che aveva fatto sognare la Russia e non solo?
All'epoca dei fatti, il Governo Sovietico optò per un prevedibile insabbiamento il cui obiettivo principale era, probabilmente, schivare il danno d'immagine che poteva derivare dall'incidente che aveva coinvolto una celebrità internazionale: questo è pensiero assai diffuso. L'ultima inchiesta sulla morte di Gagarin si è conclusa nel 2011, con un rapporto che costituisce la versione ufficiale del Cremlino nel quale si afferma che il cosmonauta morì a causa di una manovra sbagliata, generata dal tentativo di evitare un oggetto improvvisamente apparso nei cieli lungo la rotta del suo aeroplano, probabilmente una mongolfiera. Una conclusione in merito alla quale sono in molti ad essere scettici, contribuendo così ad alimentare i dubbi e le perplessità sulla tragica fine del primo uomo che vide la Terra «blu» dall'alto: difficile immaginare (o forse accettare) un banale incidente del genere per un pilota professionista, sostengono parecchi.
Tra questi spicca la voce di Aleksej Leonov che, in un'intervista rilasciata a Russia Today, torna sull'argomento, riferendo la propria testimonianza di quanto accadde quel giorno. Celebre a sua volta per esser stato il primo cosmonauta che passeggiò nello spazio, nell'ambito della missione Voskhod nel 1965, Aleksej Leonov si trovava nei pressi dell'area in cui avvenne l'incidente proprio quel 27 marzo del 1968: a bordo di un elicottero, udì due violenti boati poco distanti. Leonov, che fu amico e non soltanto collega di Gagarin e che ha fatto parte della commissione d'inchiesta che ha concluso i suoi lavori nel 2011, sostiene che le responsabilità di quelle esplosioni fossero da attribuire ad un caccia che si avvicinò troppo al piccolo velivolo guidato da Gagarin. Quell'aereo non doveva essere lì: la virata arrivò improvvisa ed imprevista al fine di schivare il pericolo, ma il MiG-15 entrò così in spin: avvitandosi su sé stesso, cominciò la caduta in picchiata da circa 1000 metri d'altezza fino allo schianto al suolo. Niente da fare per il copilota, Vladimir Seryogin, e per l'eroe sovietico che per primo aveva varcato le colonne d'Ercole imposte dall'atmosfera, appena sette anni prima.
«Noi sapevamo che un Sukhoi Su-15 doveva essere testato quel giorno ma era programmato che volasse a un'altitudine di 10.000 metri, e non 450/500. Fu una violazione delle procedure di volo». Così Leonov spiega al giornale russo, evitando tuttavia di indicare il nome del pilota che sarebbe stato alla guida del caccia sovietico: ma perché, se così fosse stato, coprire con delle menzogne la verità? La risposta è probabilmente da ricercarsi in quelli che erano i tempi allora: la Russia era impegnata a lanciare il proprio programma aerospaziale, con l'obiettivo di assestare duri colpi al gigante contro il quale consumava la sua quotidiana guerra fredda, gli Stati Uniti d'America. E di primati, quell'Unione Sovietica che esisteva da pochi decenni, ne stava collezionando diversi. Impossibile ammettere l'eventualità di un guasto a bordo, dunque, o di una manovra errata da parte degli altri piloti addestrati; inoltre, un incidente così vicino a Mosca poteva significare una ferita nella solida immagine del blocco. Meglio fu, assai probabilmente, liquidare l'evento attribuendolo a qualche goccia di alcol in più, ad un cedimento dei nervi per l'uomo che non aveva avuto timore di andare oltre la soglia dello spazio, o, all'occorrenza, all'immancabile complotto made in USA: dimenticando di restituire il dovuto tributo in giustizia a quel giovane, figlio di un falegname e di una contadina, che pure aveva dato tanto alla sua Russia e all'umanità intera.