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Covid 19

Coronavirus, sintomi più gravi con una carica virale maggiore? Cos’è e cosa dicono gli esperti

Una maggiore carica virale del coronavirus SARS-CoV-2, ovvero la concentrazione di particelle trasportate e rilasciate nell’ambiente da un individuo infettato dalla COVID-19, potrebbe essere associata a una sintomatologia più grave nei pazienti affetti dalla patologia. Gli scienziati, tuttavia, hanno rilevato risultati contrastanti nei loro studi. Ecco cosa dicono.
A cura di Andrea Centini
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Alcuni scienziati ritengono che a una maggiore carica virale rilevata nei pazienti affetti dalla COVID-19, l'infezione scatenata dal coronavirus SARS-CoV-2, sia associata una sintomatologia più grave, mentre altri sostengono che non vi sia alcuna correlazione tra severità dei sintomi e la “quantità di virus” individuata nei campioni biologici, ad esempio attraverso un tampone rino-faringeo. Del resto, c'è ancora moltissimo da capire sul patogeno emerso in Cina alla fine del 2019 (ma che in realtà potrebbe circolare da decenni, secondo uno studio), e il dettaglio sull'impatto della carica virale, intimamente connesso all'elevata contagiosità della patologia, è molto prezioso per comprendere come spezzare la catena dei contagi e contrastare il virus. Vediamo le diverse "posizioni" degli scienziati al riguardo.

Cos'è la carica virale

Innanzitutto è doveroso fornire delle definizioni. La carica virale corrisponde al numero di particelle virali trasportate e rilasciate nell'ambiente – ad esempio con tosse e starnuti – da un individuo contagiato da un virus, come può essere il nuovo coronavirus SARS-CoV-2. La dose infettiva è invece il numero medio di queste particelle necessario per scatenare l'infezione in una persona. Si tratta di due parametri molto diversi fra loro, che possono essere esemplificati con la metafora fatta a New Scientist dal professor Edward Parker, docente presso la London School of Hygiene and Tropical Medicine (Regno Unito). “La carica virale è una misura della luminosità del fuoco che brucia in un individuo, mentre la dose infettiva è la scintilla che accende quel fuoco”.

Lo studio “Temporal profiles of viral load in posterior oropharyngeal saliva samples and serum antibody responses during infection by SARS-CoV-2: an observational cohort study” pubblicato sull'autorevole rivista scientifica The Lancet e condotto da scienziati dell'Università di Hong Kong e dell'Ospedale di Shenzhen, ha evidenziato un'associazione significativa tra sintomi più gravi e concentrazione maggiore della carica virale nei pazienti. “Questo ha davvero molto senso, perché la replicazione virale è necessaria affinché un virus possa causare malattie”, ha dichiarato all'Intelligencer la dottoressa Ellen Foxman, immunologa della Facoltà di Medicina presso la prestigiosa Università di Yale. “Di solito – ha proseguito la specialista commentando i risultati della ricerca – solo pochi virus entrano nel tuo corpo, ma poi iniziano a fare copie di se stessi. Quel processo di invasione delle cellule e replicazione è ciò che porta alla malattia”. “Se i virus non riescono a replicarsi molto, in generale non causano la stessa malattia”, ha concluso la studiosa. A suffragio di questa teoria, anche i risultati dello studio “Viral dynamics in mild and severe cases of COVID-19”, anch'esso pubblicato su The Lancet. In questo caso, gli scienziati guidati dai professori Wei Zhang e Leo L M Poon (rispettivamente delle università di Hong Kong e Nanchang), hanno misurato la carica virale di 76 pazienti ricoverati all'ospedale di Nanchang, trovando una relazione tra sintomi più gravi e carica virale maggiore. “Quelli con patologie più gravi presentavano un livello più elevato di replicazione del virus, sebbene non abbiamo prove per associare la dose di esposizione iniziale all'esito della malattia”, ha affermato il professor Poon.

I risultati di questi studi contrastano con le rilevazioni di altre indagini, una delle quali condotta in Italia. Nello studio “The early phase of the COVID-19 outbreak in Lombardy, Italy” disponibile in preprint su ArXiV e non ancora sottoposto a revisione paritaria, gli scienziati italiani di diversi istituti del Nord non hanno rilevato alcuna correlazione tra carica virale dei pazienti (circa 5mila) e gravità dei sintomi. Risultati simili sono stati evidenziati dagli scienziati cinesi che hanno condotto analisi su pazienti ricoverati presso l'Ospedale popolare di Guangzhou in Cina. Nel loro studio “Temporal dynamics in viral shedding and transmissibility of COVID-19” non è emersa associazione gravità della COVID-19 e concentrazioni superiori del virus nei campioni biologici.

Studi passati hanno dimostrato che una carica virale superiore corrispondeva a sintomi peggiori nelle infezioni della SARS e della MERS, i cui coronavirus sono parenti molto stretti del SARS-CoV-2. Anche nell'influenza si verifica una situazione analoga, con un peggioramento della patologia all'aumentare della carica virale. Se davvero non ci fosse una correlazione tra carica virale superiore e severità della COVID-19, il nuovo coronavirus si comporterebbe in modo decisamente differente dai patogeni analoghi già noti. “Gli studi che dimostrano che la carica virale si correla con la gravità della malattia ha senso in termini di ciò che sappiamo di altri virus”, ha dichiarato la dottoressa Foxman, affermando dunque che ritiene plausibile questa ipotesi. Gli studi che non hanno trovato questa associazione, del resto, devono ancora essere sottoposti alla fondamentale revisione paritaria, e i risultati finali potrebbero cambiare in modo sensibile. Al momento, comunque, non può essere data per assolutamente certa una delle due posizioni, e sarà necessario condurre ulteriori indagini per capire esattamente il legame tra sintomatologia e carica virale dell'infezione.

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