Com’è possibile che un corpo umano si preservi per anni dopo la morte
Quando una persona muore il processo di decomposizione inizia praticamente subito dopo il decesso, poiché organi vitali alla stregua di cuore e polmoni non sono più in funzione e le cellule non vengono più raggiunte dall'ossigeno e dalle altre sostanze nutrienti che ne permettono la sopravvivenza. Ne consegue un processo chiamato “autolisi” dovuto all'azione di alcuni enzimi digestivi prima contenuti nei lisosomi, che determinano la distruzione delle cellule stesse. In breve tempo il fenomeno viene amplificato dalla putrefazione vera e propria, a causa dell'intervento dei batteri che iniziano a degradare i tessuti (producendo gas). La consumazione dei tessuti molli, quando il cadavere di una persona viene interrato in una bara, dura in genere una decina di anni, al termine del quale resta il solo scheletro. Se il cadavere resta all'aperto, esposto agli agenti atmosferici e non solo, i tempi possono essere decisamente più rapidi, anche per l'azione diretta di insetti e altri animali selvatici. Sono tutte variabili fortemente considerate nelle indagini forensi.
Questo è ciò che accade normalmente, ma in specifiche circostanze un cadavere può preservarsi (più o meno bene) per decenni o addirittura millenni. Come sottolineato nell'abstract dell'articolo “The Taphonomy of Natural Mummies” guidato dallo scienziato italiano Dario Piombino‐Mascali, infatti, vari ambienti e condizioni hanno il potenziale per interrompere le fasi naturali della decomposizione. Basti pensare a quanto accaduto a Ötzi o “Mummia del Similaun”, l'uomo preistorico meglio conservato in assoluto, il cui corpo ha un'età stimata di circa 5.100-5.300 anni. In questo caso a garantire la preservazione sono state le temperature gelide e il fatto che il corpo sia stato immediatamente ricoperto da un grande strato di neve e ghiaccio. Ciò ha di fatto impedito l'avvio dei naturali processi di decomposizione, e ancora oggi sono addirittura visibili i 61 tatuaggi che l'uomo si era fatto praticare. Come dimostrano le carcasse di mammut e altri animali preistorici – come questo puledro eccezionalmente conservato – emerse dal permafrost, temperature estremamente basse e ghiaccio rappresentano condizioni ideali per la preservazione dei corpi, ma non sono le sole.
Lo sapevano bene i membri del popolo Chinchorro, vissuto nell'arido deserto di Atacama (Cile) migliaia di anni fa; essi infatti sfruttavano il caldo estremo e l'assenza di umidità per preservare i cadaveri degli estinti. Le temperature elevatissime e il clima secco determinano infatti la disidratazione del corpo che dà vita al processo di essiccazione, a sua volta base per la mummificazione. Il processo può essere del tutto naturale o agevolato con sostanze chimiche / trattamento dei cadaveri come facevano gli antichi egizi, così come i membri della Chiesa Cattolica e della Chiesa Ortodossa per preservare le reliquie (o gli interi corpi) dei santi. Recentemente è balzato agli onori della cronaca il caso del "corpo incorrotto" di Carlo Acutis, giovane scomparso 15 anni fa a causa di una leucemia fulminante e avviato alla procedura di beatificazione. Come specificato dal vescovo di Assisi monsignor Domenico Sorrentino, il suo corpo dopo l'esumazione del 2019 “fu trovato nel normale stato di trasformazione proprio della condizione cadaverica”, e sono state dunque messe in atto tutte quelle tecniche di “conservazione e integrazione” per l'esposizione del corpo alla venerazione dei fedeli. Fra gli interventi una maschera di silicone, grazie alla quale è stato ricostruito il volto del giovane. Insomma, non c'è stato alcun "miracolo". Sono note le storie di numerosi corpi incorrotti di santi, che tuttavia o erano stati trattati con composti chimici ad hoc oppure venivano conservati in condizioni micro-ambientali che permettevano il contrasto alla decomposizione, come ad esempio l'assenza di ossigeno. Del resto, tutti i corpi incorrotti rimossi dalle loro posizioni originali hanno iniziato a deteriorarsi e hanno avuto bisogno di ulteriori trattamenti.
Uno dei processi che può favorire la conservazione di un cadavere, anch'esso associato a specifiche condizioni di ossigeno, temperatura e umidità, è quello dell'adipocera, come specificato nell'articolo “Adipocere: What is known after over two centuries of research” pubblicato sulla rivista scientifica Forensic Science International dagli scienziati Douglas H. Ubelaker e Kristina M. Zarenko del Dipartimento di Antropologia della Smithsonian Institution (Whashington). In parole semplici, l'adipocera – conosciuta anche col termine di ‘cera mortuaria', è una sostanza che si forma quando i batteri convertono il grasso in una sostanza organica insolubile e friabile, simile al sapone o appunto alla cera. Ciò si verifica meglio in ambienti freddi, umidi e in assenza di ossigeno, condizioni in cui spesso venivano conservate le spoglie dei defunti in antichità (e dal quale è in parte derivata la leggenda dei corpi incorrotti dei santi). Alcuni minerali possono favorire la formazione di adipocera, così come i terreni acidi delle torbiere e la presenza di metalli pesanti alla stregua del mercurio e dell'arsenico possono migliorare la conservazione dei corpi. L'imbalsamazione e altri interventi artificiali con composti chimici – ad esempio la formaldeide – sono tutti in grado di contrastare la decomposizione, ma naturalmente non si tratta di processi naturali.