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Come la Cina ha affrontato (e battuto) il coronavirus

Cosa ha permesso al Paese epicentro del virus di venire a capo della pandemia? E quali sono le ragioni per cui alcune misure hanno funzionato più di quanto non stiano facendo nelle realtà occidentali? Tra i fattori chiave, il fatto che la Cina fosse più preparata ad affrontare situazioni del genere, sia riuscita ad agire molto rapidamente e abbia potuto contare sull’uso dei big data per il tracciamento dei contatti.
A cura di Valeria Aiello
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La seconda ondata di coronavirus non sta colpendo in maniera globale ed indifferenziata. Mentre l’Europa e gli Stati Uniti fanno i conti una pandemia che sembra sfuggire di mano, Paesi come l’Australia, la Corea del Sud, il Giappone ma soprattutto la Cina sono riusciti a controllare la diffusione del virus, con incrementi giornalieri del numero di contagi che si aggirano nell’ordine di poche decine o centinaia di casi. In tanti sostengono che si tratti di dati non veritieri, di informazioni lontane dalla realtà e in certi casi manipolate dai governi che, come quello di Pechino, non brillano per trasparenza. Eppure, i numeri disponibili sul sito dell’Organizzazione Mondiale di Sanità (OMS) e le immagini che arrivano dalla Cina fotografano una situazione diametralmente opposta a quelle delle realtà occidentali.

Come la Cina ha affrontato (e battuto) il coronavirus

In una conferenza stampa dello scorso settembre, il direttore esecutivo del Programma di emergenza Sanitaria dell’Oms, Mike Ryan, ha espresso “le più profonde congratulazioni” agli operatori sanitari e alla popolazione cinese che “hanno lavorato instancabilmente per portare la malattia a livelli molto bassi”. Come è stato possibile? E cosa ha davvero permesso alla Cina di venire a capo della pandemia di Covid-19? Un articolo recentemente pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet ha indicato le ragioni che hanno permesso alla Cina di controllare il virus nonostante il Paese asiatico sia stato l’epicentro della pandemia. Uno dei fattori chiave, ritengono gli esperti, è da attribuire al fatto che la Cina fosse già preparata ad affrontare situazioni del genere.

La percezione cinese del virus

La maggior parte degli adulti cinesi ha vissuto l’epidemia di Sars causata dal coronavirus Sars-Cov, apparso per la prima volta nel novembre 2002 nella provincia del Guangdong, e ricorda l’alta mortalità associata. “La società era molto attenta a ciò che può accadere in un’epidemia di coronavirus – spiega Xi Chen, professore di Sanità pubblica della Yale School of Public Health di New Haven (Connecticut) – . Altri Paesi non hanno ricordi così recenti di una pandemia”. Questa percezione ha favorito il fatto che i cinesi abbiano indossato prontamente mascherine respiratorie. “L’osservanza (di questa misura di prevenzione, ndr) era molto alta – ha aggiunto Chen – . In confronto, negli Stati Uniti, quando a giugno e luglio il numero dei contagi era in aumento, le persone si rifiutavano ancora di indossarle. E anche alla fine di settembre il presidente Trump considerava la mascherina usata da Joe Biden una debolezza da ridicolizzare”.

La rapida gestione della pandemia

La rapidità della risposta della Cina è stata il fattore cruciale” afferma Gregory Poland, direttore del Vaccine Research Group della Mayo Clinic di Rochester, nel Minnesota – . Il Governo di Pechino si è mosso molto rapidamente per interrompere la trasmissione del virus rispetto ad altri Paesi. Nonostante questi abbiano avuto molto più tempo per prepararsi all’arrivo del patogeno, hanno ritardato la loro risposta e ciò ha significato perdere il controllo”. Un’altra sostanziale differenza con l’Europa è relativa alle abitudini sociali, come ad esempio il fatto che in Cina gli anziani tendono maggiormente a vivere con i loro figli oppure da soli, ma comunque vicino ai propri cari. Solo il 3% della popolazione anziana cinese vive in case di cura, strutture che si sono dimostrate ad alto rischio in diversi Paesi occidentali, compresa l’Italia.

Localizzazione dei cluster e identificazione dei positivi

Quando, alla fine di dicembre 2019, nella città di Wuhan sono stati segnalati i primi casi di polmonite virale (poi denominata Covid-19) nessuno sapeva esattamente cosa sarebbe accaduto. Nel giro di un paio di settimane (10 gennaio) i ricercatori cinesi hanno identificato un nuovo coronavirus (Sars-Cov-2) e pubblicato la sequenza genomica del patogeno. Nel frattempo il virus si era già diffuso, cogliendo tutti alla sprovvista, ma il Governo cinese ha immediatamente adottato una serie di misure rigorose, annunciando un'emergenza nazionale, ordinando la chiusura totale della città e inviando decine di migliaia di medici a combattere una “guerra popolare” contro il virus.

Wuhan è stata posta sotto stretta sorveglianza per 76 giorni, durante i quali sono state sospese tutte le attività e collegamenti, con misure simili che sono state adottate in ogni città della provincia dell’Hubei. In tutto il Paese sono stati istituiti 14mila punti di controllo sanitario presso gli snodi dei trasporti pubblici, con gli spostamenti della popolazione fortemente ridotti in decine di città dove un solo membro della famiglia era autorizzato ad uscire di casa ogni due giorni per le necessità essenziali, come fare la spesa.

In poche settimane, la Cina è riuscita a testare milioni di persone per Sars-Cov-2 e, sempre a Wuhan, il 5 febbraio 2020 sono stati aperti tre ospedali da campo destinati all’isolamento dei sospetti positivi o delle persone con sintomi lievi, in modo da non intasare gli ospedali ed evitare che questi potessero trasmettere il virus a familiari e persone vicine. Nelle settimane successive, all’interno di luoghi pubblici come stadi e centri espositivi, sono stati realizzati altri 13 ospedali da campo, per una rete complessiva di 13mila posti letto. Nel caso in cui i pazienti iniziavano a mostrare sintomi di malattia grave, venivano rapidamente trasferiti negli ospedali convenzionali.

Nel giro di un mese (10 marzo 2020) la rete degli ospedali da campo non era già più necessaria e, più o meno nello stesso periodo, l’attenzione del Governo di Pechino si è spostata dal controllo della trasmissione locale dell’infezione alla prevenzione della diffusione del virus attraverso il tracciamento dei contatti e l’identificazione dei casi importati. Uno studio di modellizzazione, che ha visto come coautore il professor Chen, ha calcolato che le azioni di sanità pubblica intraprese dalla Cina tra il 29 gennaio e il 29 febbraio potrebbero aver evitato 1,4 milioni di infezioni e 56mila morti.

Tracciamento dei contatti

La rapida risposta di gestione della pandemia è stata integrata da un efficace sistema nazionale di contact tracing. Il criterio di mappatura dei cluster di trasmissione è stato infatti affiancato dall’uso dei big data, cioè di tutti i dati provenienti dalle app installate su smartphone, dai pagamenti con carte di credito o dalle immagini di droni e videocamere di sorveglianza. Un metodo che nei Paesi occidentali ha lasciato perplessi ma che in uno Stato con un assetto sociale e giuridico evidentemente non comparabile con il nostro, ha permesso di intervenire in maniera chirurgica e tempestiva.

In Cina – ha aggiunto Poland – , c’è una concomitanza di circostanze: la popolazione prende sul serio le infezioni respiratorie ed è disposta ad adottare interventi non necessariamente terapeutici mentre il Governo può imporre limiti maggiori alle libertà individuali più di quanto sarebbe considerato accettabile nella maggior parte dei Paesi occidentali. L’impegno per il bene collettivo è radicato nella cultura e non c’è l’iperindividualismo che caratterizza Paesi come gli Usa”. In altre parole, ha osservato Poland, i cinesi accettano l’idea che il controllo delle malattie sia una questione scientifica. “La Cina non ha movimenti anti-vaccino o anti-scientifici che stanno cercando di far deragliare la lotta contro Covid-19 negli Usa”.

Il sistema Cina è replicabile?

Secondo il report “CoronaShock and Socialism” del Tricontinental, l’istituto internazionale di ricerca sociale, Governi totalitari come Cuba, Venezuela, Vietnam e India, sono stati in grado di affrontare meglio il virus, perché hanno impiegato strategie rigorose come quella cinese. Avevano inoltre un settore interno su cui potevano fare affidamento per la produzione di dispositivi di protezione e hanno coltivato l’azione pubblica “per spezzare sostanzialmente la catena dell'infezione”. Da ciò, in ogni caso, non consegue necessariamente che la risposta della Cina alla pandemia sia generalizzabile. Gli approcci e gli effetti delle misure differiscono non solo in base al sistema sanitario e alla curva epidemica ma anche in relazione al potere politico e alla concezione delle libertà civili di ogni nazione che determinano inesorabilmente l’efficacia della risposta e le pratiche che permettono di frenare il contagio.

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