Antichi nomadi, i popoli misteriosi che parlano attraverso i sepolcri
Non ci hanno lasciato testimonianze scritte di quella che fu la loro esistenza secoli fa; tutto quello che abbiamo ricevuto in eredità da essi ci è stato restituito nel tempo da lussuosi e strabilianti corredi funerari, in grado di illustrarci, parzialmente, quale straordinaria cultura si celasse alle loro spalle. Erano i popoli che abitarono l'Asia Centrale, in un ampio territorio che parte dal confine con la Cina e si estende fino alle coste del Mar Nero: lì quelle genti di cui si hanno poche e frammentarie notizie, che vivevano nelle vaste steppe eurasiatiche, entrarono in contatto con gli antichi greci, per i quali altro non erano se non «barbari», il termine riservato a tutti gli stranieri che parlavano una lingua diversa e, quindi, non solo incomprensibile ma associabile, in segno di disprezzo, alla balbuzie. Erano nomadi o seminomadi, vagavano concedendosi di tanto in tanto dei ricoveri, spesso con grosse greggi al seguito; al contempo, erano molto spesso dei fieri guerrieri in sella a cavalli riccamente bardati. Erano «gli altri» di quell'epoca antica, quando i greci si affacciarono sui territori orientali e si addentrarono al loro interno, contrapposti allo sviluppo legato principalmente all'agricoltura che rendeva sempre più protagonisti i grandi centri urbani.
Un silenzio lungo secoli, poi le campagne archeologiche nel XX secolo – I loro vicini, che attraverso Erodoto impressero per sempre nelle memorie collettive le loro storie in una sorta di primitiva etnografia, li indicavano con le parole Sciti oppure Saka (probabilmente i due termini erano equivalenti), ma poiché di questi nomadi non è mai giunta a noi qualsiasi opera scritta, neanche in forma di frammento, paradossalmente non possiamo conoscere con quale nome essi stessi fossero soliti chiamarsi. La tradizione degli studi ce li ha consegnati, da sempre, come gruppi poco organizzati e ben distanti da quelle strutture economicamente e socialmente complesse che fiorivano nelle città; quasi si trattasse di genti di poco superiori al grado di cacciatori-raccoglitori, ma pur sempre culturalmente “inferiori”. Eppure, il vasto silenzio proveniente dalle pianure centro-asiatiche negli ultimi decenni ha sollecitato molte volte le accorte orecchie degli archeologi che hanno scelto di iniziare a seguire le orme che quei nomadi dovevano pure avere impresso, in qualche modo, nella storia: ritrovandosi così, non di rado, dinanzi a dei veri e propri tesori che, se non possono parlare allo stesso modo di una fonte scritta, sono perfettamente in grado di dipingere un ritratto di quella che fu una cultura in grado di raggiungere espressioni artistiche incredibilmente elevate.
Il tesoro dell'Afghanistan – Un esempio su tutti, viene da quella terra martoriata che è l'Afghanistan: abituati a conoscerla solo attraverso le amare cronache dell'ultimo decennio, quando si ritrovò catapultata sulla scena politica occidentale attraverso una guerra che ancora non sembra destinata a finire, è stata da sempre depositaria di ricchezze favolose e testimonianze artistiche dal valore sorprendente. Alcune di queste, come i Buddha di Bamiyan, si sono ritrovati ad essere il meschino strumento nelle mani di barbari (questa volta, nel senso più negativo del termine) per trasmettere al nemico un messaggio di prepotenza e violenza. Altre, come il tesoro di Tillia Tepe, sono miracolosamente sopravvissute a razzie e saccheggi, quasi per benevola decisione del destino: i favolosi ori provenienti dalle sepolture di quei principi nomadi che, ancora oggi, ci parlano disegnando storie antiche che, purtroppo, non siamo in grado di ricostruire se non per cenni. Certamente non attraverso l'immenso patrimonio che gli scritti di qualunque tipo sarebbero stati in grado di riconsegnarci ma, senza dubbio, consentendoci di offrire uno sguardo a popolazioni antichissime in quel remoto angolo di mondo, attraverso i loro kurgan.
Scrivere una storia attraverso attraverso i Kurgan – Scopriamo così, nell'ammirare quegli ori luccicanti, quelle sepolture ricche e sfarzose, quanto diversi furono coloro i quali ci sono stati consegnati dalla cultura «dominante» come popolazioni di poco più che pastori, dediti ad una vita di nomadismo in cui il vagabondaggio tra aride steppe battute dai venti era il solo modo per poter raccogliere quel minimo indispensabile al nutrimento e alla sopravvivenza. Merito soprattutto delle numerose campagne archeologiche che, nella seconda metà del XX secolo, hanno consentito all'archeologia di riempire il vuoto che l'assenza di fonti scritte aveva creato, imbattendosi nei kurgan di cui Erodoto aveva lasciato un'accurata descrizione come colline artificiali che erano siti di inumazione e che, al contempo, svolgevano la funzione di testimonianza della ricchezza, del potere e del prestigio del defunto. Disseminati in quel vasto territorio, scoperti da increduli archeologi che si trovarono di fronte ricchezze magnifiche in siti quali quello di Tolstaja Mogila o di Kul-Oba (entrambi in Ucraina, risalenti approssimativamente al IV secolo a. C.), o in Kazakistan o, ancora, in quella «collina d'oro» (ovvero Tillia Tepe) i cui preziosi gioielli risalenti al II-I secolo a. C. mostravano ormai inequivocabili tratti greci, mischiati con quella cultura dei popoli sciti dei quali ogni piccolissima informazione scoperta è ancor più preziosa del ricchissimo oro che adornava i cadaveri dei principi all'interno dei fastosi sepolcri.