Alzheimer, italiani bloccano la malattia con un anticorpo: Prof. Cattaneo ci spiega come hanno fatto
Ricercatori italiani della Fondazione EBRI ‘Rita Levi-Montalcini’ di Roma hanno scoperto un anticorpo in grado bloccare l'Alzheimer allo stadio iniziale in topi transgenici, che manifestano il modello murino della diffusa patologia neurodegenerativa. Questo anticorpo, chiamato A13, in parole semplici è in grado di colpire e dissolvere i composti tossici (gli oligomeri del peptide A-Beta) caratteristici dell'Alzheimer che si formano anche all'interno delle cellule staminali destinate a diventare neuroni. Grazie ad esso gli scienziati italiani sono riusciti a riattivare la neurogenesi (la produzione di neuroni) a un livello quasi normale e dunque a contrastare la malattia nelle sue fasi precoci. Benché si tratti di uno studio preclinico su topi, ci sono ottime basi per giungere in futuro a un approccio terapeutico efficace anche sull'uomo. Abbiamo contattato il coordinatore della ricerca, il Professor Antonino Cattaneo, per farci spiegare nel dettaglio l'esperimento, il perché si tratta di un risultato così importante e quali sono le tempistiche di un eventuale farmaco. Ecco cosa ci ha raccontato.
Professor Cattaneo, i risultati della ricerca condotta dal suo team dell'Istituto EBRI sembrano gettare basi molto promettenti su un possibile trattamento per il morbo di Alzheimer allo stadio iniziale. In quanto tempo si potrebbe arrivare a un farmaco efficace sull'uomo?
Faccio una doverosa premessa. Questo è uno studio preclinico; per arrivare ad applicazioni terapeutiche ci sarà un primo scoglio che è l'approvazione per lo studio sull'uomo e un secondo scoglio, la sperimentazione sull'uomo, che sarà doverosamente lunga. Eventuali risultati tangibili per i pazienti ci saranno nell'ordine di 8-10 anni. Questo è un messaggio importante che noi vogliamo sottolineare con forza. Però è chiaro che non si arriva a nuove terapie senza una solida ricerca di base nei laboratori. Senza di essa non c'è risultato possibile in termini terapeutici. Questa è la base imprescindibile. Va detto che il tempo necessario è anche relativo alla disponibilità di finanziamenti adeguati. Perché le fasi successive, come del resto quella già sostenuta, ma in particolar modo quelle successive, costano molti soldi. Quindi è chiaro, se uno ha tutti i soldi che servono si usa meglio il tempo a disposizione. Se non si può avanzare così velocemente come si vorrebbe perché i soldi non ci sono i tempi inevitabilmente si allungano.
Come avete identificato l'anticorpo in grado di bloccare la malattia nei topi? E come agisce?
Questo anticorpo, un anticorpo ricombinante che noi chiamiamo “nanobody” o “nanocorpo”, è un frammento che noi abbiamo isolato nel laboratorio qualche anno fa, che ha la particolarità di legarsi, riconoscere selettivamente gli oligomeri del peptide A-Beta senza legare il monomero e senza legare le fibrille. Mi spiego meglio. Il peptide A-Beta è un piccolo pezzo (composto da 42 amminoacidi) di una normale proteina del cervello, che nella malattia di Alzheimer viene tagliato in modo anomalo. Questo peptide, normalmente, ha la proprietà di aggregarsi, ovverosia, una molecola si lega a un'altra, poi questa si lega un'altra che si lega a un'altra ancora e così via, formando, alla fine, enormi ammassi di fibrille che si accumulano nel cervello dei pazienti. Fino a qualche tempo fa si pensava che questi ammassi fibrillari fossero la specie tossica per i neuroni. Ora sappiamo, invece, che la forma più tossica non sono le fibrille, e neppure la singola copia del peptide A-beta, ma sono gli oligomeri A-beta, costituiti, come indica la parola di origine greca, da una associazione di tre, quattro, dieci molecole di A-Beta. È chiaro che gli A-beta oligomeri sono il bersaglio da colpire selettivamente. Dunque noi abbiamo isolato un anticorpo molto selettivo nel riconoscere solo gli oligomeri, non il monomero e non gli ammassi fibrillari che poi formano le placche di amiloide. Quindi si tratta di un anticorpo che è unico nelle sue proprietà, perché ha questa capacità di legarsi solo e soltanto agli oligomeri. Questo è il primo passo. Per il secondo passo, abbiamo fatto questo ragionamento: questo processo del taglio del peptide A-Beta, la sua aggregazione e poi il suo accumulo si pensava che avvenisse all'esterno delle cellule nervose, mentre noi avevamo dimostrato, in un precedente lavoro, che il peptide si forma per la primissima volta all'interno dei neuroni, in un particolare posto del neurone (detto reticolo endoplasmico), dunque dobbiamo colpire gli oligomeri prima che siano “sputati” fuori dalla cellula e prima che facciano dei danni su altre cellule nervose a cascata. Quindi, come fare a mandare questo anticorpo dentro alla cellula? Abbiamo così costruito un cavallo di Troia, che permetta di veicolare l'anticorpo direttamente dentro al neurone, e in particolare abbiamo utilizzato dei virus. Con questo mezzo tecnico riusciamo a veicolare l'anticorpo e a interferire con questi oligomeri dentro il neurone, laddove si formano per la prima volta, usando un approccio di terapia genica. A questo punto entra in gioco la neurogenesi, la produzione di nuovi neuroni.
Ci spieghi perché è così importante la formazione di nuovi neuroni
È noto da vent'anni che, in particolari zone del cervello adulto, come ad esempio una regione dell'ippocampo che è deputato alla memoria, si possono formare nuovi neuroni. Non è vero l'adagio in voga tempo fa, secondo il quale noi nasciamo con un numero definito di neuroni, e che poi li possiamo soltanto che perdere. Esiste invece un fenomeno, detto neurogenesi adulta, che consiste nella produzione di nuove cellule nervose in particolari zone del cervello. Noi siamo andati a vedere la neurogenesi adulta nell'ippocampo di un topo che si ammala di Alzheimer, un modello animale che viene utilizzato per studiare la malattia. Abbiamo misurato la neurogenesi di questi topi e abbiamo riscontrato un grosso deficit di neurogenesi ad un'età molto più precoce di quando si sviluppano le placche di amiloide, la perdita di memoria o altri aspetti neuropatologici che questi topi sviluppano progressivamente. Questo è stato un primo risultato importante dello studio: un difetto di neurogenesi è un evento molto precoce nella progressione della neurodegenerazione. A questo punto ci siamo domandati perché la neurogenesi è deficitaria, e abbiamo fatto un'ipotesi: forse le cellule staminali del cervello che diventeranno neuroni producono questi oligomeri di A-Beta. Ed effettivamente abbiamo visto che è così: le cellule staminali che nel cervello del topo malato di Alzheimer non riescono a diventare neuroni producono questi oligomeri. La domanda successiva è stata: come possiamo interferire con questi oligomeri? Facendo ciò che ho spiegato prima, ovverosia attraverso l'anticorpo A13 che riconosce solo gli oligomeri. Lo indirizziamo su quella precisa zona della cellula nervosa dove si formano gli oligomeri e riusciamo a bloccarli, a dissolverli. A questo punto ci siamo chiesti, com'è la neurogenesi in questi topi malati di Alzheimer quando io blocco gli oligomeri dentro le cellule staminali? E abbiamo visto con grande nostra sorpresa – ma anche soddisfazione – che la neurogenesi torna a livelli quasi normali. Quindi abbiamo dimostrato due passaggi: primo, che interferendo con gli oligomeri dentro le cellule, nel primo posto dove si formano (più precoce di così noi non possiamo andare) curiamo la proprietà della cellula staminale di diventare neurone; secondo, ciò prospetta la possibilità di riattivare la neurogenesi in un cervello Alzheimer, vicariando la perdita di neuroni che lo caratterizza. Questo è in sintesi quello che noi abbiamo trovato e come lo abbiamo ottenuto, ponendo le basi per un approccio di terapia genica per questa malattia.
Avete riscontrato reazioni tossiche nei topi che suggeriscano un potenziale fattore di insicurezza in ambito clinico?
No, nel modello animale non ci sono aspetti che suggeriscano fattori tossici. Però è chiaro che questo richiede delle prove di tossicologia specifiche, che sono proprio le prove regolatorie necessarie per ottenere l'autorizzazione per la sperimentazione sull'uomo. Quindi queste andranno comunque fatte.
Un potenziale farmaco nato dai risultati di questa ricerca potrebbe avere effetti positivi sull'Alzheimer in fase precoce; per i pazienti con la malattia in fase avanzata?
Noi abbiamo in corso uno studio nel quale stiamo somministrando l'anticorpo sul modello animale in una fase molto più tardiva. Quindi la risposta a questa domanda la avremo al termine di questo studio.
In base a recenti ricerche, agenti patogeni come il virus dell'herpes e il batterio responsabile di un'infezione gengivale – il Porphyriomonas gengivalis della parodontite cronica – sembrerebbero essere associati all'insorgenza dell'Alzheimer. Com'è possibile?
Questi eventi infettivi e infiammatori potrebbero essere degli effetti facilitanti, contribuendo ad un processo chiamato neuroinfiammazione nel cervello, mediato dalle cellule della microglia, una popolazione di cellule immunitarie del cervello – “sentinelle” immunitarie del sistema nervoso. Queste cellule microgliali, nel cervello di un malato di Alzheimer, sono fortemente attivate, e la risposta a questa attivazione è talvolta dannosa. Quando queste cellule sentinella avvistano un agente patogeno hanno inizialmente una risposta protettiva, quando però questa infiammazione dura troppo a lungo e diventa cronica nel cervello, la risposta infiammatoria diventa patologica. E quindi la neuroinfiammazione cronica è sicuramente una concausa, che rende il cervello più suscettibile ai meccanismi della neurodegenerazione. Si tratta di un meccanismo facilitatore e dunque molto verosimile.
Recentemente si parla molto dell’Aducanumab, un farmaco che sembrerebbe efficace contro il morbo di Alzheimer e che potrebbe essere sottoposto all'iter di approvazione. Cosa può dirci al riguardo?
Gli ultimi 15 anni hanno visto parecchi trial clinici con anticorpi diretti contro il peptide A-Beta che hanno fallito: Aducanumab fa parte di questo gruppo. Tutti questi anticorpi sono non selettivi tra la forma monomerica, oligomerica o fibrillare del peptide A-Beta, inoltre tutti questi anticorpi colpiscono il peptide A-Beta (le fibrille e gli oligomeri) fuori dai neuroni, non dentro. Quindi, in una fase abbastanza tardiva. Il fatto che questi anticorpi riconoscano anche le fibrille, i grossi ammassi, significa che con grande probabilità, quando l'anticorpo raggiunge il cervello, viene preso da questi ammassi, e dunque non si permette di agire dove ci sono le forme veramente tossiche. Per quanto concerne Aducanumab, rispetto agli altri anticorpi ha una specificità un po' maggiore, nel senso che non riconosce il monomero, ma riconosce sia gli oligomeri che le fibrille. Ma anch'esso soffre del problema di legarsi a questi ammassi; la sua concentrazione efficace o biodistribuzione viene impedita dal fatto che c'è un “falso bersaglio”. E poi agisce fuori dalle cellule. Il nostro approccio è diverso da questi in due aspetti: primo, il nostro anticorpo è selettivo solo per gli oligomeri, secondo, noi colpiamo gli oligomeri dentro il neurone, quindi prima. Ora una recente revisione dei dati clinici suggerisce che potrebbe essere efficace su alcuni gruppi di pazienti. Questa è una notizia sicuramente positiva, che però non vuol dire che Aducanumab sarà approvato, ma vuol dire che dovranno essere completati ulteriori studi su questi gruppi di pazienti. Avere anticorpi sempre più specifici per le forme che sono veramente tossiche come gli oligomeri è un fattore fondamentale. Pensiamo di essere in qualche modo in una buona posizione col nostro lavoro.