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Alle radici del male, il conflitto tra gli uomini

Una domanda che ha accompagnato le riflessioni dei filosofi per secoli, oggi al centro di studi scientifici interessati a comprendere i meccanismi delle nostre società: siamo geneticamente determinati nel ricercare la violenza o esistono solo degli ostacoli che si frappongono alla nostra volontà di pacifica cooperazione?
A cura di Nadia Vitali
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conflitto tra gli uomini

Ha attraversato la storia, fin dalle più antiche radici dell'umanità e, a dispetto di idealismi e speranze riposte nel luminoso avvenire, nonostante la conoscenza ed il progresso, la sua feroce sostanza è rimasta immutata: il conflitto non è stato spazzato via dal miglioramento delle condizioni di vita di molti territori del Pianeta, ma ha continuato e continua ad esistere con nuovi volti. Al punto da rendere ancora indispensabile quella domanda che filosofi dei secoli passati non potevano fare a meno di porsi: l'uomo è determinato dalla natura a cercare e creare situazioni di violenza ed aggressività, fino alla estrema manifestazione di queste che è la guerra?

Europa, un neo-modello di convivenza pacifica?

Se guardiamo superficialmente alla nostra ridotta parte di mondo, con riferimento alle crudeli pagine di storia che abbiamo scritto soprattutto nel secolo che ci ha preceduti, quasi inevitabilmente osserveremmo come i conflitti tra gli Stati siano diminuiti e, anzi, nel caso specifico dell'Europa sono stati totalmente soppiantati da un ideale di unità, collaborazione e mutuo sostegno incarnato dalle stesse istituzioni che testimoniano il sodalizio tra Paesi.

seconda guerra mondiale

Tralasciando i controversi attuali aspetti economico-finanziari che non è il caso di trattare in questa sede, il cuore dell'Unione Europea rappresenta un esempio di convivenza pacifica tra società limitrofe: assieme alla confederazione degli Irochesi dello Stato di New York e alle tribù brasiliane del bacino superiore del fiume Xingu, è stata oggetto di un recente studio ad opera di Douglas Fry della finlandese Åbo Akademy University di Vasa. Attraverso l'analisi di questi tre modelli esistenti, l'antropologo statunitense ha estrapolato le sei caratteristiche importanti (imprescindibili?) al fine di creare e mantenere lo stato di pace tra comunità vicine ma diverse: la presenza di un'identità sociale generale, una buona rete di interconnessione ed interdipendenza tra i sottogruppi, una condivisione di valori che non prevedano il ricorso alla guerra, un apparato simbolico e cerimoniale che rinsaldi l'alleanza (non necessariamente religioso, anzi talvolta fondato anche sulla comune laicità così come su altri strumenti che possano esprimere l'identità di una vasta collettività) e, infine, un ordine istituito superiore per la gestione dei conflitti. Condizioni non facilmente riscontrabili contemporaneamente e nel medesimo contesto ovunque: ecco perché la questione su cui puntare bene l'obiettivo dei prossimi studi potrebbe essere il rifiuto, da parte di molti gruppi, di scegliere la cooperazione e l'alleanza come strumento di rinforzo sociale ed individuale.

Ma se la nostra Europa può essere proposta come esempio di equilibrio ben strutturato e che prevede in egual misura il rispetto della diversità e l'esaltazione delle comuni radici, è bene sottolineare come il volto mutevole del conflitto abbia scelto nuove strade per esprimersi: e così, mentre le società e le culture si globalizzano, gli individui vanno sempre più alla ricerca di una propria identità, esprimibile anche nel più violento dei modi (riflessione quanto mai dovuta, e sulla quale già da un decennio si soffermano gli studiosi, soprattutto in seguito agli eventi dell'11 settembre). Ad una richiesta di collettività e condivisione risponde un aumento della spaccature interne quando non dello scontro e del conflitto, a testimonianza del fatto che il mondo nato dalle ceneri della seconda guerra mondiale mantiene con difficoltà le promesse di pace ed armonia stipulate: ecco perché, mentre le società occidentali si avviano sempre più sulla strada del multiculturalismo, è dovere della scienza interrogarsi su quali sono le modalità con cui tale processo sta andando avanti (tolleranza o rassegnata accettazione dell'altro con riserve?) e, soprattutto, su quali potrebbero essere gli sviluppi futuri che i fenomeni migratori avranno, non ultimo l'eventuale originarsi di conflitti.

Il ruolo della scienza: comprendere, analizzare, immaginare il futuro

La prestigiosa rivista Science dedica un ampio speciale sul suo ultimo numero al tema del conflitto che, attraverso ricerche e documenti di esperti, esplora e disegna la traiettoria della violenza e della guerra, indagando sul razzismo, sui conflitti etnici, sulla nascita del terrorismo come nuovo strumento di ostilità, immaginando scenari probabili anche alla luce della capacità umana di farsi mediatore nelle contese e di promuovere la pace.

L'uomo: un animale da guerra o una creatura in cerca di simili per collaborare? – Il dilemma è antico: l'uomo nasce come «buon selvaggio» e viene corrotto dalla società civile, oppure ha bisogno delle strutture organizzate per reprimere ed indirizzare verso grandi e più nobili obiettivi i propri istinti, inevitabilmente egoistici? Se nel corso degli anni, i grandi pensatori hanno teorizzato nel solco di queste due grandi linee guida le proprie ipotesi sulla base di una conoscenza del mondo per lo più eurocentrica, le osservazioni etnologiche del ‘900 di popoli lontanissimi hanno smentito spesso l'una o l'altra posizione: gli antropologi si sono trovati volta per volta dinanzi a popolazioni di feroci guerrieri in Sud America, ben lungi dall'aver avuto qualsivoglia contatto con la "società civile" o a genti dall'indole spontaneamente mite e non incline al conflitto, a testimonianza dell'impossibilità di tirare le somme e stabilire una legge universale per quella complessa realtà che è l'essere umano.

jivaro tsantsa

Eppure le ricerche di una sorta di "primo motore della guerra" proseguono, avvalendosi anche delle sempre più profonde conoscenze che abbiamo del mondo animale e della biologia. Indagando in quelle creature che sono i nostri parenti più prossimi, gli scienziati hanno spesso creduto di aver risolto l'arcano, individuando nella figura del «pan ancestrale» il comune antenato colpevole delle macchie che non riusciamo, in alcun modo, ad eliminare: studi che hanno dimostrato l'aggressività degli scimpanzé (Pan troglodytes) sembravano aver risolto una volta per tutte la questione. Tuttavia, quello che potrebbe sembrare un dato di fatto, è in realtà contestato dal comportamento dell'altro primate assai vicino a noi, il bonobo (Pan paniscus), che è, a differenza del cugino, vive in società molto pacifiche: il «pan ancestrale» potrebbe dunque essere all'origine della nostra socialità e dell'empatia che ci contraddistingue. Anzi, sulla base di un confronto tra i due Pan e l'uomo, Christopher Bohem, della University of Southern California, ritiene che sia da escludere l'ipotesi che il nostro comune antenato desse vita a conflitti quali sono quelli degli esseri umani: ben più probabile che le guerre siano diventate parte della nostra specie al tempo dell'uomo cacciatore-raccoglitore, lo stesso che poi era in grado di porre fine ai conflitti, mediare, stringere alleanze e creare società pacifiche basate sulla cooperazione. Del resto, come sottolinea in un recente lavoro Frans de Waal della Emory University l'empatia, caratteristica che ci lega agli stessi bonobo, ha radici antichissime ed è alla base del nostro comportamento «prosociale».

La competizione ed il conflitto, per il cibo, per il controllo del territorio, per l'accoppiamento, sono elementi insiti nel processo evolutivo di ciascuna specie, inclusa quella umana. Al pari di quanto accade per molti animali, però, noi uomini siamo al contempo esseri socievoli e che necessitano di complesse strutture sociali per vivere: come questi, quindi, abbiamo elaborato e fissato dei comportamenti utili ad evitare gli effetti più rovinosi delle lotte e delle violenze, sebbene ciò non sia servito, nel corso della nostra storia, a preservarci dal «male assoluto». Anzi, il progresso e la tecnologia nel XX secolo sono servite a rendere solo più sanguinosi, violenti e drammatici i conflitti: basti pensare all'orrore della bomba atomica e alla "razionalità" nel metodo dei campi di sterminio nazisti. L'uomo, di fronte all'immagine potente di un mondo che stava ampliando i propri confini guardando ad un nuovo mai conosciuto prima, non ha saputo rispondere che utilizzando il vecchio strumento che padroneggiava con destrezza e sicurezza ormai da millenni, "arricchendolo" oltretutto delle conquiste scientifiche del tempo: la guerra.

Ecco perché le nuove sfide che ci aspettano con il millennio da poco iniziato devono essere considerate e valutate con la dovuta attenzione: quali che siano le ragioni dei nostri comportamenti bellicosi, abbiamo già dato prova di essere spesso pronti ad impugnare le armi nel più inaspettato dei momenti. Nelle città multiculturali in cui ci troviamo a vivere così come nei territori più disagiati e sventurati, possono annidarsi e proliferare i semi del male, prendendo il volto del conflitto etnico e religioso: accadeva secoli addietro, accade ancora oggi, sebbene al di fuori dei confini della nostra piccola Europa. Un'espressione di violenza come un'altra del resto: dati alla mano, alcuni ricercatori dell'istituto di analisi economica di Barcellona in collaborazione con la New York University hanno dimostrato come la religione o l'etnia abbiano costituito, per numerosi conflitti interni scatenatisi nella seconda metà del XX secolo, nient'altro che un mero strumento per far scatenare violenze che affondavano le radici in cause diverse. O un ulteriore elemento di discrimine che si è andato a sovrapporre a situazioni complesse e controverse, generando un quadro di odio e ostilità che, altrimenti, avrebbe potuto trovare risoluzione nel pacifico dialogo. Forse, però, la nostra specie è ancora troppo lontana dal traguardo della tolleranza, indispensabile per la serena convivenza sulla Terra: ecco perché qualunque studio ci aiuti a comprendere i misteri di cosa ci spinge ad essere così drammaticamente «umani» è ancora indispensabile.

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