Allarme ONU: cambiare rotta entro il 2030 o sarà catastrofe
La lotta al riscaldamento globale non è ancora fallita, l'uomo non ha ancora deposto le armi di fronte alla catastrofe che potrebbe derivare dai decenni di sfruttamento puro delle risorse del Pianeta: però bisogna dire che, se le premesse al cambiamento di rotta sono queste, al momento non è ancora possibile fare previsioni neanche vagamente ottimistiche né sul presente né tanto meno sul futuro della Terra. Per quanto riguarda il presente, i dati ce li abbiamo quasi di fronte agli occhi: i satelliti rivelano temperature medie sempre più alte in riferimento soprattutto all'ultimo decennio (testimonianza del fatto che si ha a che fare con una tendenza e non con episodi sporadici) e ghiacciai che si muovono sempre più velocemente nei propri processi di scioglimento, mentre la gran parte degli scienziati concorda sul fatto che il clima manifesti chiarissimi "segnali di squilibrio". Ne consegue che il futuro non si mostra esattamente roseo.
Fallito l'obiettivo 2020, si guarda al 2030
A lanciare l'ennesimo allarme è l'International Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), comitato scientifico nato nel 1988 dalla volontà delle Nazioni Unite allo scopo di osservare il cambiamento climatico e valutarne l'impatto sulla Terra. In occasione del vertice tenutosi a Berlino, sono stati infatti presentati i dati che riguardano le proiezioni per i prossimi anni le quali, manco a dirlo, non sono particolarmente confortanti. Ci si è inoltre soffermati sull'obiettivo non raggiunto, e ormai non più raggiungibile, che avrebbe costituito forse la vera pietra miliare sulla via del cambiamento, il 20/20/20 plan: 20% di emissioni di gas serra in meno, 20% di risparmio energetico in più e incremento del 20% di consumo proveniente dalle fonti rinnovabili; il tutto entro il 2020. Un progetto ambizioso ma indispensabile che ha visto un ampio sforzo da parte delle nazioni facenti parte dell'Unione Europea, Italia inclusa: peccato che il Vecchio Continente non sia in grado di fare da rimorchiatore al resto del mondo, in particolare a quei Paesi dalle economie emergenti, sempre più forti, i quali molto spesso puntano il dito contro le politiche ambientali internazionali, vedendole come un ostacolo allo sviluppo economico. In realtà, è intuitivo come tutte le azioni messe in campo per la salvaguardia di ambiente e clima costituiscano, al contrario, un vero e proprio investimento per il futuro: un futuro che, altrimenti, potrebbe risultare (quanto meno) di difficile gestione da parte dell'umanità.
Stando così le cose, sembra ancor più difficile immaginare come entro il 2050 si potrà raggiungere l'auspicato taglio del 40-70% delle emissioni: eppure non c'è praticamente alternativa e il primo settore sul quale si dovrà intervenire è quello carbonifero, il quale ha ancora il suo rilevante peso, sia in termini economici sia sociali ed ambientali, anche nel nostro Paese. Quindi la strategia da seguire, per il momento, sarà di spostare il traguardo del piano 20/20/20 al 2030, non soltanto attraverso il taglio delle emissioni su settori come l'elettricità, ma mettendo in campo anche vasti programmi di riforestazione (quando non di semplice contrasto alla deforestazione selvaggia), puntando sulla capacità naturale di alberi e piante di "ripulire" l'aria dall'anidride carbonica.
Il Pianeta ha la febbre alta
Il problema sono i tempi strettissimi che se, da una parte, non impediscono ai gas serra di arrestarsi, dall'altra, fanno in modo che risulti complesso prendere le adeguate contromisure, o quanto meno mettere tutti d'accordo ai tavoli dei summit internazionali. Basti pensare a come nel decennio compreso tra il 2000 e il 2010 le emissioni siano aumentate ancora più rapidamente di quanto accaduto nei precedenti trent'anni, presumibilmente in conseguenza dell'affermarsi di nuovi giganti sui mercati internazionali. Ma alla febbre del Pianeta poco importa delle leggi economiche: così il rapporto dell'ICCD, il quinto, mette ancora una volta in guardia. Frutto del lavoro di 235 scienziati provenienti da 57 diversi Paesi, realizzato attraverso il confronto di oltre diecimila fonti scientifiche, coadiuvato dal parere di 180 esperti esterni, il report propone 1.200 scenari possibili dei quali si è discusso al vertice. Il dato più allarmante in merito riguarda sicuramente le temperature previste per i prossimi decenni che, secondo i modelli, potrebbero quindi aumentare di 3,7/4,8 gradi entro il 2100 ossia molto di più dei 2° previsti e considerati come la soglia-limite prima dell'innescarsi di cambiamenti non più reversibili per il Pianeta.
Dunque urge un cambiamento, sì, ma a che costi? Questo snodo costituisce il pricipale punto di scontro, nonché evidentemente la ragione per cui siamo giunti fino a questo punto: eppure, sottolineano gli esperti, nessuno sta chiedendo di mettere un freno allo sviluppo economico ma semplicemente una transizione verso energia pulita, e quindi anche più moderna, che causerebbe un rallentamento nella crescita mondiale annua pari allo 0,06%. «Un costo che è alla nostra portata» ha specificato Rajendra Pachauri, presidente dell'IPCC e che include anche i benefici derivanti dalla conseguente limitazione degli eventi atmosferici estremi (che creano spesso emergenze dai danni economici rilevanti) e dell'aria inquinata che noi tutti respiriamo: un rallentamento, tutto sommato, ma non un vero sacrificio. Come non sono sacrifici quelli richiesti anche ai singoli individui e che riguardano principalmente il risparmio energetico: anche i comportamenti individuali, infatti, sono entrati a far parte del rapporto poiché, essendo indispensabile uno sforzo serio questa volta, è necessaria proprio la collaborazione di tutti, nessuno escluso. Del resto è nel nostro stesso interesse.