A che serve la relatività?
A cosa ci serve sapere che lo spazio si curva in presenza di grandi masse, come quelle dei pianeti, distorcendo anche il tempo percepito e misurato dal nostro orologio? A che ci serve sapere che l’unico riferimento assoluto nell’universo è la velocità della luce, e che avvicinandoci a quelle velocità percepiamo lo scorrere del tempo in maniera del tutto diversa da un nostro gemello sulla Terra? A spiegarlo sono alcuni degli oltre cento scienziati accorsi da tutto il mondo per il XX convegno della Società Italiana di Relatività Generale e Gravità (Sigrav) ospitato dal 22 al 26 ottobre all’Osservatorio Astronomico di Capodimonte, a Napoli. Un importante momento di incontro tra addetti ai lavori per fare il punto sugli ultimi studi di fisica e cosmologia, dalle dimensioni nascoste della teoria delle stringhe ai metodi alternativi alla gravità newtoniana per spiegare la materia oscura. Ma anche un’occasione per spiegare al grande pubblico come la relatività ha permesso lo sviluppo di tecnologie di alta precisione.
Scoprire l'acqua, misurare il tempo
Sapevate che sotto il subcontinente indiano esiste un’enorme riserva di acqua che ogni anno si abbassa di 15 cm a causa dell’enorme sfruttamento idrico dell’India? A svelarlo sono state le osservazioni di due satelliti, GRACE e GOCE, che stanno analizzando la Terra misurando il suo campo gravitazionale. L’acqua influenza il campo gravitazionale del nostro pianeta, perciò analizzando le anomalie gravitazionali della Terra è possibile, tra le altre cose, scoprire l’esistenza di riserve idriche sotto la superficie senza bisogno di scavare. Di recente, invece, un satellite della NASA ha dimostrato un’ipotesi formulata già nel 1916: i giroscopi inseriti nei satelliti lanciati in orbita intorno alla Terra, che servono a mantenere l’orientamento del satellite rispetto a un sistema di riferimento (di solito le stelle fisse), subiscono delle lievissime ma percepibili inclinazioni in direzione della curvatura dello spaziotempo prodotta dalla massa della Terra. E la stessa cosa, si è scoperto, capita alla Luna, che nel suo moto di rivoluzione intorno al nostro pianeta subisce l’effetto della distorsione spaziotemporale in un fenomeno noto come precessione geodetica.
Forse vi stupirà sapere inoltre che attraverso l’uso di orologi atomici gli scienziati sono riusciti a dimostrare il paradosso dei gemelli, come spiega Guglielmo Tino, docente di ottica e optometrica all’Università di Firenze. Einstein aveva previsto per primo che se un nostro gemello partisse oggi dalla Terra per dirigersi verso la stella più vicina a velocità prossime a quella della luce e tornasse poi a casa alla stessa velocità, impiegando circa dieci anni, ci ritroverebbe più vecchi di dieci anni – come ovvio – mentre per lui, tuttavia, il tempo trascorso apparirebbe assai inferiore, magari della metà, cosicché sarebbe invecchiato solo di cinque anni! Un paradosso a lungo considerato impossibile da dimostrare, viste le oggettive difficoltà di accelerare un corpo dotato di una certa massa a velocità prossime a quelle della luce. Ma negli scorsi anni ci siamo riusciti utilizzando orologi al cesio ad altissima precisione, così precisi da accumulare un’inesattezza di appena 1 secondo in un tempo di 1015 secondi (per renderci conto, 2 x 1015 è il tempo trascorso dall’estinzione dei dinosauri, 65 milioni di anni). Mettendo questi orologi in orbita intorno alla Terra, è stato possibile misurare il ritardo accumulato in termini di nanosecondi per il fatto che la massa del nostro pianeta distorce lo spaziotempo rallentando – in maniera impercettibile a livello umano, ovviamente – lo “scorrere” del tempo.
Il GPS senza la relatività
Tutto questo può continuare a sembrare inutile, ma gli americani scoprirono a loro spese quanto fosse importante la relatività generale quando iniziarono a inviare in orbita i primi satelliti GPS, che avrebbero regalato al mondo (anche se dietro controllo dell’U.S. Army) il primo sistema di posizionamento globale tramite il quale, in linea teorica, dovremmo riuscire a non perderci mai. Come racconta Angelo Tartaglia, docente di fisica e relatività al Politecnico di Torino e consulente per gli attuali sistemi di posizionamento satellitare, gli ingegneri americani preferirono ignorare gli avvertimenti dei fisici riguardo la distorsione prodotta dalla gravità terrestre sul tessuto spaziotemporale all’interno del quale i satelliti si sarebbero trovati a muoversi, e lanciarono i primi satelliti convinti che bastasse solo un po’ di buona fisica newtoniana e di tradizionale geometria euclidea per far funzionare il sistema, che si basa sui segnali incrociati di diversi satelliti ciascuno dei quali all’interno porta due orologi atomici, uno al cesio e uno al rubidio. Ebbene, si scoprì con grande imbarazzo di tutti che ogni giorno il GPS accumulava un ritardo di 38600 nanosecondi, tale da produrre un errore di posizione di oltre 11 chilometri. Più che sufficiente a rendere inservibile il GPS. Apportando successivamente le correzioni suggerite dalla teoria della relatività, tutto tornò a posto, ma i soldi sprecati furono tanti.
In futuro le sonde lanciate in missioni di esplorazione nel sistema solare potranno inoltre usare un sistema di posizionamento che tenga conto del problema della relatività. Viaggiando a velocità molto elevate (anche se ovviamente significativamente inferiori a quelle della luce), gli orologi atomici di queste sonde saranno rallentati rispetto a quelli sulla Terra. Per risolvere il problema si potrebbero sfruttare una serie di segnali per determinare con assoluta precisione la propria posizione: segnali provenienti da emettitori artificiali impiantati sulla Luna, su Marte, magari su qualche grosso meteorite come Cerere, incrociati con i segnali di alcune pulsar, che costituiscono una sorta di fari intergalattici, potrebbero risultare il modo migliore per ovviare ai problemi relativisti (i segnali delle pulsar tengono già conto degli effetti della relatività) e calcolare sempre con assoluta precisione, in qualsiasi momento, la propria posizione nello spazio, come gli antichi naviganti osservando le stelle del cielo. E questo è solo l’inizio. Del resto, è passato appena da un secolo dalla scoperta della relatività. Probabilmente, le applicazioni più importanti sono ancora da scoprire. Ma, come ricorda Stefano Vitale, docente all’Università di Trento, “il 90% di ciò che la fisica studia non ci servirà a niente, ma il 10% ci cambierà la vita, e quel 90% ci serve per arrivare a scoprire come”.