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Stamina, il rischio di un nuovo caso Di Bella

La terapia Stamina non rispetta gli standard medici e, nonostante il clamore mediatico, appare inutile. Il rischio è che la grande speranza delle staminali produca casi simili a quello Di Bella.
A cura di Roberto Paura
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È difficile parlare di scienza quando, tra i soggetti della discussione, ci sono esseri umani sofferenti, magari giovanissimi, come nel caso di Sofia, la bambina di tre anni e mezzo affetta da leucodistrofia metacromatica, una rara malattia neurodegenerativa per la quale, purtroppo, non esiste al momento una cura. I genitori di Sofia si erano appellati al governo e ai media sollecitando la ripresa di una terapia a loro dire capace di migliorare le condizioni della bambina: il protocollo Stamina, implementato dalla Stamina Foundation, che prevede la somministrazione di staminali mesenchimali – quelle del midollo osseo – attraverso infusioni, operate gratuitamente dagli Spedali Civili di Brescia, attraverso un accordo con la Stamina. I giudici si erano pronunciati contro questa terapia giudicata inattendibile, bloccando di fatto la somministrazione delle infusioni. Poi, un servizio di Le Iene e, tra gli altri, l’appello di Adriano Celentano, hanno sollevato un putiferio, tale da costringere il Consiglio dei Ministri ad approvare un decreto legge per consentire la prosecuzione delle cure ai pazienti già in corso di trattamento. Vale la pena, ora che l’emergenza è rientrata, ragionare a mente fredda su un caso che rischia, a parere di molti, di assomigliare a quello, celeberrimo, che coinvolse la terapia eterodossa per la cura dei tumori messa a punto dal professor Luigi Di Bella, oggetto di un braccio di ferro con il Ministero della Sanità nel 1998.

I dubbi sul metodo Stamina

I due casi hanno infatti molti punti in comune. Da un lato abbiamo una fondazione privata che ritiene di aver individuato un metodo di cura di malattie al momento incurabili, come quella di cui è affetta la piccola Sofia, attraverso soluzioni innovative, ma che non rispettano i protocolli sanitari; dall’altro abbiamo il Ministero della Sanità, la comunità scientifica e le autorità giudiziarie che riscontrano irregolarità nella terapia utilizzata, sostenendone la totale irrilevanza sul piano della cura della malattia. Al centro, l’opinione pubblica, una parte della quale per natura sospettosa verso la comunità scientifica quando si tratta di malattie che, purtroppo, a oggi non sono curabili, nonostante i miliardi spesi nella ricerca, e che non disdegna di guardare con interesse a cure alternative, anche se prive del crisma della scientificità.

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Il metodo Stamina sembra infatti proprio un altro metodo Di Bella. Secondo il Ministero e l’AIFA, l’Agenzia italiana del farmaco, il protocollo della Stamina Foundation non solo non rispetta le norme sanitarie, ma “pone condizioni di rischio reale per i pazienti”. Le terapie con cellule staminali, cellule in grado cioè di differenziarsi in tutte le tipologie cellulari del nostro organismo, sostituendo le cellule malate, costituiscono oggi l’ultima frontiera della medicina. Le enormi aspettative che circondano la ricerca in questo settore hanno creato speranze premature sulla possibilità di curare tutte le malattie, produrre nuovi organi in laboratorio e addirittura invertire l’invecchiamento. Tutte ipotesi reali sul piano teorico, molto difficili da realizzare sul piano pratico in tempi brevi, sebbene la ricerca stia facendo passi da gigante. La scienza, e la medicina ancor di più, ha i suoi tempi, che sono dettati dalla necessità di rispettare un principio, quello precauzionale, che nel settore farmaceutico impone di non avviare trial clinici su pazienti umani se prima la terapia sviluppata non supera una serie stringente di trial in laboratorio attraverso protocolli definiti a livello internazionale. E non è questo il caso del metodo Stamina.

Le staminali e i tempi della ricerca

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In una lettera aperta al ministro uscente Balduzzi, la comunità degli scienziati e dei medici italiani impegnati nella ricerca sulle staminali scrive senza giri di parole: “Non esiste nessuna prova che queste cellule abbiano alcuna efficacia nelle malattie per cui sarebbero impiegate. Non esiste nessuna indicazione scientifica del presunto metodo originale secondo il quale le cellule sarebbero preparate. Ci sembra questo uno stravolgimento dei fondamenti scientifici e morali della medicina, che disconosce la dignità del dramma dei malati e dei loro familiari”. Un modo per speculare sull’angoscia di chi si ritrova a combattere malattie senza cura, per le quali esistono solo terapie palliative. Per le quali, inoltre, la ricerca sta sviluppando possibili soluzioni, ma con tempi ancora lunghi, troppo lunghi per poter offrire una guarigione oggi. Per esempio, spiega Giuseppe Remuzzi, direttore del Dipartimento di Medicina specialistica e dei trapianti degli Ospedali Riuniti di Bergamo e dei laboratori dell’Istituto Mario Negri, “si sta provando a correggere il difetto del gene (malato) che porta alla malattia”, attraverso sperimentazioni condotte “a Milano, dove c’è uno dei più grandi esperti al mondo di questa tecnica, Luigi Naldini”. Qualche risultato c’è, ed è incoraggiante, mentre l’uso delle staminali mesenchimali, stando alle ricerche pubblicate, non ha prodotto nemmeno un minimo miglioramento.

“Prelevare le cellule, coltivarle in laboratorio, espanderle e trattarle in modo che sappiano eventualmente riparare certi danni è molto, molto difficile: sono attività che si basano su procedure estremamente rigorose, basta non osservarne una e salta tutto”, continua Remuzzi in un articolo pubblicato su Scienza in rete, organo del Gruppo 2003 per la Ricerca. “Stamina non segue queste regole e le conoscenze in questo campo non si improvvisano. E allora le cellule non crescono, si modificano, muoiono: è proprio quello che hanno visto all’Istituto Superiore di Sanità nel controllare i preparati di Stamina. Iniettare quei preparati non è inutile, è pericoloso. L’hanno fatto già in tante parti del mondo, lo chiamano turismo delle cellule, si paga per avere infezioni, tumori e nessun beneficio”. Ma allora perché il Consiglio dei Ministri ha deciso di fare marcia indietro? Renato Balduzzi spiega che si è voluto salvaguardare il principio etico per cui terapie già avviate e prive di gravi effetti collaterali debbano avere la possibilità di proseguire fino a conclusione. Ma forse il governo uscente, tra i più vituperati della storia della Repubblica, ha pensato di dare un segnale di apertura verso l’opinione pubblica con un colpo di coda misericordioso.

Durissime le parole della comunità scientifica, che nella lettera aperta al ministro deplora “la diffusione in Italia e in Europa di pratiche finora confinate a regioni del mondo nelle quali debole è la democrazia come la vigilanza sull’esercizio della medicina e sul commercio dei farmaci”. Un riferimento velato anche al famoso Vidatox, il presunto farmaco antitumorale prodotto a Cuba, oggetto di un autentico pellegrinaggio delle famiglie dei malati. Secondo Umberto Veronesi, che sul tema ha assunto una posizione più moderata, espressa in un articolo su La Repubblica, “ognuno ha il diritto di cercare la guarigione della malattia attraverso ogni via, anche andando a cercare un farmaco derivato dal veleno dello scorpione di Cuba, oppure intraprendendo cammini metafisici in ogni parte del mondo”. Tuttavia, rimarca Veronesi, negli ospedali pubblici si devono adottare solo terapie che rispettino i protocolli scientifici, benché ciò non significhi che la scienza debba restare sorda alla disperazione dei malati e dei loro familiari, negando loro il diritto alla speranza. La medicina e la ricerca, conclude Veronesi, “sono al servizio dell’uomo, la sanità pubblica non lavora per il male della popolazione e lo Stato non è un nemico”. Verità che spesso tendiamo a dimenticare.

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