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Pippo Fava, il concetto etico del giornalismo

La sera del 5 gennaio del 1984 il giornalista e scrittore Giuseppe Fava veniva ucciso da cinque colpi di pistola. A ventotto anni da quell’orribile delitto ricordiamo quest’uomo e la sua ricerca di verità che lo portò a scontrarsi con la realtà delle terra di mafia, quella realtà che egli sperava di cambiare con le sue parole.
A cura di Nadia Vitali
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Pippo fava il concetto etico del giornalismo

La verità prima di tutto. La verità che impedisce alla violenza di proliferare, alle ingiustizie di moltiplicarsi, la verità rivolta sempre a quanto ha bisogno di essere cambiato e trasformato, a quello che merita il biasimo o l'approvazione; attraverso il «giornalismo etico», a cui aspirava Giuseppe Fava, che «accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente in allerta le forse dell'ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo».

Le sue furono parole ed idee piene di critica verso i mali di una società, ma anche di propositi per un miglioramento non solo della sua terra tanto amata ma di tutta l'Italia e del suo sistema democratico; spietato osservatore che mai ha perso la speranza scivolando nel fin troppo facile cinismo. Furono proprio le sue parole a spingerlo verso gli aguzzini quella sera del 5 gennaio del 1984, quando gli vennero scaricati addosso cinque colpi di calibro 7,65. Un delitto di mafia, ordinato dal boss Nitto Santapaola, riconosciuto come colpevole e condannato all'ergastolo nei tre gradi del processo.

Pippo Fava era «scomodo» per i mafiosi non meno di quanto lo era per le autorità quando già trent'anni fa puntava il dito contro la fitta rete di intrecci e connivenze che unisce il potere politico a quello della malavita organizzata. E poiché non si poteva dire che a Catania c'era la mafia, così si era deciso, si andò alla ricerca della pista passionale, poi si frugò tra le carte del suoi giornale, I Siciliani, per dimostrare che la testata versava in difficoltà economiche che potevano essere stata altra probabile causa del delitto. Il Questore, il Presidente della Regione Sicilia, alcuni membri del Partito Comunista furono gli unici presenti tra le alte cariche pubbliche che avrebbero dovuto rendere omaggio a questo giornalista e scrittore (che al suo attivo vantava anche un Orso d'Oro a Berlino per il film Palermo of Wolfsburg di cui curò la sceneggiatura), abbandonato dallo Stato in una terra amara a combattere troppo solo contro il male.

Gli operai ed i giovani accompagnarono il feretro verso l'estremo viaggio per salutarlo per sempre; nessuna pubblica celebrazione e nessun funerale di Stato. Del resto egli stesso, pochi giorni prima di morire, nell'ultima intervista rilasciata ad Enzo Biagi diceva, a proposito del «proverbiale» silenzio degli uomini di cosa nostra diceva

La mafia ha acquisito una tale impunità da essere diventata tracotante… Io ho visto molti funerali di Stato. Io dico una cosa di cui io solo sono convinto, che può anche non essere vera, ma molto spesso gli assassini erano sul palco delle autorità.

Pippo Fava sapeva e parlava: conosceva troppo bene il «problema della mafia», lo individuava ormai radicato nelle stanze del potere, lontano dai latifondi siciliani e dal vecchio stereotipo romantico dell'«uomo d'onore», assai più vicino alle banche, ai «soldi insanguinati con cui si costruiscono le Chiese», al mondo dell'ufficialità. Forse fu uno dei primi «profeti» a comprenderlo, andando incontro al proprio destino.

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