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L’agricoltura biologica non può sfamare l’umanità

La produttività delle tecniche agricole che fanno a meno di pesticidi e fertilizzanti non è in grado di coprire il fabbisogno alimentare del pianeta.
A cura di Roberto Paura
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Se ciascuno di noi, oggi stesso, prendesse in mano la zappa e iniziasse a creare un orto biologico per garantirsi il proprio sostentamento, dopo un po’ impareremmo una bruciante lezione: non ci sarebbe cibo per tutti. Certo, una famiglia di quattro persone in un paese occidentale come l’Italia potrebbe avere abbastanza terra da coltivare per coprire il proprio fabbisogno. Ma gli ortaggi e la verdura che crescerebbero potrebbero andare incontro a momenti di siccità, grandinate, nevicate e gelate: uno solo di questi avvenimenti metterebbe in crisi la nostra possibilità di autosostentamento. Moltiplicate il tutto per sette miliardi di abitanti, e vi renderete presto conto che ci attenderebbero tempi duri.

Un mondo da sfamare

Joseph Dzindwa

Uno studioso di nome Thomas Malthus aveva previsto all’inizio del XIX secolo che con l’aumentare della popolazione mondiale non ci sarebbe stato abbastanza cibo per tutti, e come conseguenza avremmo avuto disastrose carestie ricorrenti, tali da decimare periodicamente la popolazione mondiale. Molti pensano che Malthus fosse semplicemente caduto in errore, vittima di un pessimismo cosmico. La verità è un’altra: a partire dalla metà degli anni ’40 del secolo scorso l’agricoltura mondiale è stata trasformata dalla cosiddetta “rivoluzione verde”. Attraverso l’uso di fertilizzanti chimici, pesticidi, e incroci genetici tra le piante – del tutto naturali – l’umanità è riuscita ad aumentare enormemente le rese agricole, facendo sì che, nei paesi in cui queste tecniche sono usate, lo spettro della fame e della carestia sia scomparso, quale che sia il numero di abitanti presente e futuro del mondo (certo, fino a un livello ragionevole di crescita demografica).

L’agricoltura biologica fa invece a meno di questi ritrovati, e si basa sull’idea di una coltivazione “com’era una volta”: il che garantisce prodotti più genuini e, secondo i promotori di questa filosofia, molto più sani. Tuttavia, non potremmo in nessun caso applicare questo metodo su larga scala. Una ricerca pubblicata su Nature a firma di ricercatori della McGill University in Canada e dell’Università del Minnesota, USA, ha analizzato l’esito di 66 sperimentazioni che mettono a confronto le rese dell’agricoltura biologica con quelle dell’agricoltura convenzionale. Ebbene, la resa del biologico risulta fino al 34% inferiore a quella dell’agricoltura convenzionale, soprattutto in alcuni casi specifici come determinate tipologie di verdure e, soprattutto, il grano.

Il grano e la rivoluzione verde

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Il grano non è un alimento qualunque. È stato alla base della nostra alimentazione per secoli, e lo è ancora oggi. Fino al XIX secolo, la resa media era pressoché identica a quella dei tempi dell’antica Roma; l’impennata demografica degli ultimi due secoli avrebbe provocato carestie immani se, agli inizi del secolo scorso, qualcuno non avesse cominciato a realizzare degli incroci genetici per produrre una varietà di grano più resistente. L’italiano Nazareno Strampelli produsse nel 1914 la prima varietà “geneticamente modificata” tramite incrocio naturale, resistente al freddo. Successivi innesti con varietà provenienti dall’Oriente permisero di creare una specie resistente anche al caldo forte, e il regime fascista non tardò ad appropriarsene: durante la cosiddetta “battaglia del grano” (tali i nomi imposti dalla retorica di Mussolini, che a petto nudo partecipava nelle campagne alla raccolta per dare “il buon esempio”), si passò da una produzione di 44 milioni di quintali del 1922 a 80 milioni nel 1933, un raddoppio della produttività a fronte di un aumento quasi nullo della superficie coltivata. Negli anni ’60 Norman Borlaug portò oltre le sperimentazioni di Strampelli e realizzò i primi incroci resistenti alle comuni malattie del grano. Fu l’inizio della Rivoluzione verde.

Pensare che questa “rivoluzione verde” sia stata resa possibile da OGM ante-litteram e da prodotti chimici farebbe storcere il naso a molti puristi dell’agricoltura biologica. Eppure, senza queste tecniche avremmo avuto, nel corso dello scorso secolo, almeno un paio di miliardi di morti per fame. Questo non vuol dire che l’agricoltura biologica sia da buttar via. A piccola scala, è un’ottima alternativa. E non solo: le fragole, per esempio, hanno una resa solo del 3% inferiore se coltivate biologicamente, e i legumi – in determinate condizioni di coltivazione – hanno una resa inferiore di appena il 5%. Queste tipologie di alimenti potrebbero essere coltivate usando le tecniche dell’agricoltura biologica senza troppi problemi. Ma nei paesi in via di sviluppo sarebbe una follia: lì dove le moderne tecniche ancora non si sono diffuse adeguatamente, le carestie sono all’ordine del giorno. Aumentare la terra coltivabile non è possibile: vuol dire abbattere boschi e foreste, aumentando l’effetto serra e il cambiamento climatico, nonché il rischio di dissesto idrogeologico. Se vogliamo sperare di arrivare nel 2050 con una popolazione di 9 miliardi di abitanti, dovremmo continuare a impiegare i prodotti chimici in agricoltura e, in alcuni casi, gli OGM. Anche se la prospettiva può non piacerci, è comunque migliore di quella di un’ecatombe prossima ventura.

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