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Covid 19

Scoperto ceppo più contagioso del coronavirus: mutazione può complicare sviluppo del vaccino

Attraverso l’analisi computazionale di oltre 6mila sequenze genetiche del coronavirus SARS-CoV-2, un team di ricerca internazionale guidato da scienziati americani del Laboratorio Nazionale di Los Alamos ha individuato un secondo ceppo più contagioso del patogeno. Originato da una mutazione chiamata D614G, il ceppo sarebbe diventato rapidamente quello dominante nel mondo. Le modifiche genetiche possono complicare lo sviluppo di vaccini e farmaci.
A cura di Andrea Centini
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Scoperto un secondo ceppo del coronavirus più contagioso rispetto all'“originale” emerso a Wuhan, nella seconda metà di novembre del 2019 secondo uno studio condotto da scienziati italiani dell'Università Campus BioMedico di Roma. La mutazione alla base del nuovo ceppo, chiamata D614G, secondo gli scienziati che l'hanno individuata rappresenta un potenziale rischio per due ragioni principali: innanzitutto il SARS-CoV-2 starebbe divergendo dalla sua forma iniziale in un modo che potrebbe determinare problemi allo sviluppo di un vaccino; in secondo luogo, le persone infettate dal ceppo originale potrebbero essere suscettibili a un'infezione scatenata dal secondo. Quest'ultimo, inoltre, ha già ampiamente soppiantato il ceppo di Wuhan in diverse parti del mondo.

Ad annunciare la scoperta del nuovo e più contagioso ceppo del coronavirus è stato un team di ricerca internazionale guidato da scienziati americani del Dipartimento di Biologia Teorica e Biofisica del Laboratorio Nazionale di Los Alamos, che hanno collaborato con i colleghi del Duke Human Vaccine Institute dell'Università Duke, dello Sheffield Biomedical Research Centre dell'Università di Sheffield (Regno Unito) e dello Sheffield Teaching Hospitals NHS Foundation Trust. Gli scienziati, coordinati dalla dottoressa Bette Korber, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver eseguito un'analisi computazionale su oltre 6.000 sequenze genetiche del coronavirus, provenienti da tutto il mondo e caricate dai ricercatori nel database Global Initiative for Sharing All Influenza Data.

Dall'analisi dei dati, Korber e colleghi hanno individuato 14 distinte mutazioni nelle 30mila coppie di basi di RNA che costituiscono il genoma del coronavirus, ma quella che ha catturato maggiormente la loro attenzione è stata proprio la D614G. Questa mutazione, infatti, si è verificata nella Proteina S o Spike del coronavirus, quella che il patogeno sfrutta come un piede di porco (dopo essersi legato al recettore ACE2 delle cellule umane) per scardinare la parete cellulare, penetrare all'interno e dare avvio al processo di replicazione, che porta all'infezione chiamata COVID-19. La proteina Spike è da sempre al centro dell'attenzione degli scienziati, poiché considerata un bersaglio privilegiato di potenziali vaccini e farmaci. Inattivandola, infatti, si neutralizza la capacità del virus di legarsi alle cellule umane e dunque di scatenare l'infezione. Ma se questa proteina muta, si modifica in modo sensibile col passare del tempo, non solo il patogeno potrebbe diventare più aggressivo, letale, o magari “mansueto”, ma verrebbe resa più complicata – se non vanificata – l'efficacia di potenziali vaccini e farmaci in sviluppo.

La mutazione, come indicato, ha dato vita a un secondo ceppo più contagioso, che ha letteralmente soppiantato l'originale sotto il profilo della diffusione. La forma mutata del coronavirus è stata osservata in Italia già a febbraio, e dalla metà di marzo essa era ben radicata negli Stati Uniti, a Washington e soprattutto a New York. “È un classico caso dell'evoluzione darwiniana. Il ceppo D614G sta aumentando in frequenza a una velocità allarmante, indicando un vantaggio in termini di fitness rispetto al ceppo originale di Wuhan che consente una diffusione più rapida”, affermano gli scienziati. Fortunatamente il nuovo ceppo, sebbene più contagioso, non sembra essere più letale (il tasso di ricoveri è il medesimo), ma come specificato potrebbe porre problemi nello sviluppo di vaccini e farmaci, oltre che nell'immunità dei pazienti.

Sottolineiamo che siamo innanzi a uno studio preliminare non ancora sottoposto a revisione paritaria, e benché molti scienziati concordino nel ritenere molto interessanti i risultati cui è giunto il team di ricerca, ce ne sono molti altri che affermano di non giungere a conclusioni affrettate. La speranza è che il caldo possa riuscire a contenere in qualche modo il virus, rallentarne il tasso di mutazione e dare il tempo agli scienziati di produrre un vaccino in grado eradicarlo in modo sicuro ed efficace, nel più breve tempo possibile. I dettagli della ricerca sono stati resi disponibili sul database online BiorXiv, in attesa della pubblicazione su una rivista scientifica.

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