Quando la scienza si autocensura
C’è una naturale paura della scienza, generalmente frutto di scarsa cultura scientifica, che spinge l’opinione pubblica a prendere spesso posizione contro i risultati di alcune ricerche giudicate capaci di compromettere la salute pubblica, che spaziano dagli OGM alle centrali nucleari. Quando però è la stessa comunità scientifica a mettere in discussione la necessità di rendere pubblici i risultati di alcune di queste ricerche, c’è qualcosa che non va. E’ il caso della recente scoperta, da parte di una équipe di ricercatori dell’Erasmus Medical Center di Rotterdam e dell’Università del Wisconsin, che ha portato alla creazione di una versione altamente letale del virus influenzale H5N1, più noto come “virus dell’aviaria”. Già di per sé, H5N1 rappresenta il ceppo influenzale a più alta mortalità girato negli ultimi anni: se ad esso si aggiunge la possibilità di una facile contagiosità, come per i normali virus influenzali, abbiamo gli ingredienti per un’ecatombe di massa.
Censurate il virus killer!
È quello che potrebbe succedere, secondo il National Science Advisory Board for Biosecurity, se i risultati di questa scoperta venissero pubblicati. L’ente americano per la biosicurezza, nato sull’onda del panico scatenato nel 2001 dalle lettere all’antrace, ha vietato alle due più prestigiose riviste scientifiche mondiali, Nature e Science, di pubblicare i dettagli della ricerca sulla versione killer dell’H5N1. La divulgazione delle specifiche del virus potrebbe infatti aiutare eventuali malintenzionati a realizzare un’arma di bioterrorismo spaventosamente letale, ben più della possibilità – da sempre temuta dagli esperi di antiterrorismo – di una diffusione del virus del vaiolo, i cui ultimi ceppi al mondo sono conservati in due sorvegliatissimi laboratori negli USA e in Russia. L’ente per la biosicurezza ha chiesto alle due riviste di omettere i dettagli del codice genetico alterato del virus realizzato in laboratorio e soprattutto le metodologie impiegate, limitandosi alle conclusioni generali. Ma per il momento sia Nature che Science hanno preferito sospendere qualsiasi ipotesi di pubblicazione della ricerca.
Va chiarito che l’obiettivo dei ricercatori non era quello di mettere a disposizione di chiunque l’arma biologica definitiva, quanto piuttosto comprendere più in dettaglio come nascono questi ceppi-killer del banale virus influenzale stagionale, per riuscire a sviluppare vaccini capaci di contrastarne gli effetti a priori. Insomma, una ricerca importante nella lotta contro una malattia che, nonostante una mortalità apparentemente insignificante, provoca pur sempre centinaia di migliaia di vittime ogni anno, secondo l’OMS, principalmente tra gli anziani.
Un dibattito "senza precedenti"
La decisione ha scatenato un dibattito che il direttore di Nature, Philip Campbell, ha definito “senza precedenti”. Le opinioni espresse dagli scienziati sono infatti diverse. Secondo Bruce Alberts, direttore di Science, la divulgazione al pubblico potrebbe in effetti essere vietata, ma i risultati della ricerca dovrebbero essere messi a disposizione di tutti i membri della comunità scientifica “che ne facciano richiesta”. Stesso parere espresso da Kwok-Yung Yuen, direttore del Dipartimento di malattie infettive dell’Università di Hong Kong, secondo il quale l’estrema preziosità dei dettagli della ricerca impone che questi vengano forniti “a tutti i laboratori di salute pubblica che fanno parte del network di sorveglianza dell’OMS, dopo aver firmato un accordo di segretezza”. E del resto è vero che al momento l’elevata contagiosità del ceppo virale modificato è stata dimostrata in laboratorio solo sugli uccelli: non è detto cioè che il virus possa attaccare anche gli esseri umani. Non solo: la ricerca è già stata sottoposta al vaglio dei referees, gli esperti che anonimamente vagliano la validità di uno studio prima di pubblicarlo su una rivista scientifica. Dunque sia i referees sia gli editor di Nature e Science hanno già in mano tutti i dettagli.
Giovanni Boniolo, filosofo della scienza e tra i principali esperti italiani di bioetica, critica fortemente la decisione presa dall’ente americano per la biosicurezza: “Si stanno chiudendo le porte quando i buoi sono ormai già fuggiti”, fa notare su Scienza in rete. Non solo: “Celare la parte metodologica significa snaturare la scienza stessa. Una delle sue caratteristiche fondamentali è data proprio dalla ripetibilità dei risultati e delle metodiche, le quali devono essere rese pubbliche per poter, appunto, essere sottoposte a potenziale controllo intersoggettivo”. Insomma, è chiaro che mettere a disposizione solo le conclusioni di una ricerca senza fornirne i dettagli per la ripetibilità dell’esperimento vuol dire non fare scienza. Eppure il problema non è nuovo: emerse infatti per la prima volta in tutta la sua drammaticità nei primi anni ’40 del XX secolo quando, in un oscuro laboratorio nel Nuovo Messico, alcuni “apprendisti stregoni” riuscirono a superare gli ultimi ostacoli tecnici alla realizzazione dell’arma finale: la bomba atomica.
Il precedente: l'autocensura degli scienziati atomici
Già nel 1935 Leo Szilard, che per primo aveva avuto l’intuizione di una reazione a catena nel bombardamento di nuclei radioattivi capace di liberare enormi quantità di energia, si rivolse a vari scienziati attivi negli studi atomici sostenendo che, in prospettiva, poteva essere preferibile non pubblicare i futuri risultati delle ricerche in questo campo. La reazione della comunità scientifica fu in maggioranza contraria, soprattutto per il fatto che all’epoca l’ipotesi di Szilard sembrava ricadere più nell’ambito della fantascienza che in quello della scienza. Lo scienziato ritornò alla carica nel 1938, quando ormai la fissione nucleare era stata scoperta e in America diversi fisici avevano iniziato a lavorarci su, senza ancora sapere cosa farne. Enrico Fermi, che era da poco riparato negli Stati Uniti fuggendo dall’Italia fascista approfittando dell’invito a Stoccolma per ricevere il premio Nobel, sostenne che l’autocensura da parte degli scienziati andasse contro il principio dell’universalità della scoperta scientifica e ricordasse molto le censure del fascismo. Ma tra coloro che iniziarono a farsi convincere dal ragionamento di Szilard ci furono diversi degli scienziati che poco dopo avrebbero iniziato a lavorare alla bomba atomica, tra cui Edward Teller, il padre della bomba H. E poco dopo sulla rivista Science apparve un celebre articolo a firma del fisico W.P. Bridgeman che annunciava la decisione di non far accedere ai suoi laboratori scienziati provenienti dai paesi dell’Asse, suggerendo ai colleghi di fare altrettanto.
Quella stessa autocensura proseguì negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, con l’obiettivo di impedire che l’Unione sovietica apprendesse dei clamorosi passi avanti fatti dagli scienziati atomici guidati da Oppenheimer e Teller: la realizzazione della bomba all’idrogeno, la più potente arma mai sviluppata dall’uomo. I sovietici ci riuscirono comunque, approfittando anche di una fuga di notizie a opera di spie comuniste. Ma la Storia ha dato ragione agli sforzi di Szilard e dei suoi colleghi, dimostrando che in casi eccezionali è davvero necessario impedire che i risultati della ricerca scientifica vengano resi pubblici. Significa, in tutti i casi, scrivere delle tristi pagine di storia della scienza. L’importante però è capire qual è il limite dell’autocensura. Come ha scritto Boniolo: “Il problema è: fin dove dovremmo spingere questo baratto? Chi decide il limite? I cittadini come intervengono nella scelta di tale limite? Ma, soprattutto, che cosa impedirebbe di estendere tale oscuramento a molta della conoscenza che già abbiamo e a quella che potremmo avere perché potrebbero darsi implicazioni pericolose per la collettività?”