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Qual è l’incidenza di coaguli di sangue nei pazienti positivi a Covid-19

Lo indicano i risultati di un nuovo studio condotto in California che ha valutato l’incidenza di tromboembolismo venoso in oltre 26mila pazienti che hanno manifestato una forma sintomatica della malattia: “A 30 giorni dalla diagnosi di Covid-19, la frequenza è simile a quella dei pazienti che non hanno contratto l’infezione”.
A cura di Valeria Aiello
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L’incidenza di tromboembolismo venoso a 30 giorni dalla diagnosi di Covid-19 in persone che hanno sviluppato una forma sintomatica della malattia è paragonabile a quella riscontrata tra coloro che non hanno contratto l’infezione da coronavirus Sars-Cov-2. Lo indicano i risultati di un nuovo studio condotto negli Stati Uniti da un team di ricerca californiano su oltre 26mila pazienti che hanno manifestato i sintomi della malattia. Di questi, lo 0,8% ha ricevuto una diagnosi di tromboembolismo, con frequenza simile (0,5%) a quella di pazienti Covid-negativi.

I dati, pubblicati nel dettaglio in una lettera di ricerca su Jama Internal Medicine, indicano che tra i pazienti sintomatici con esito positivo al test Sars-CoV-2 “l’incidenza di tromboembolismo diagnosticato in ambulatorio è simile a quella dei pazienti Covid-negativi – indicano gli studiosi – . Parallelamente a recenti report, l’incidenza di tromboembolismo post-ospedaliero non differisce per lo stato di SARS-CoV-2 ed è paragonabile a quella osservata negli studi clinici sulla tromboprofilassi”.

Pur rappresentando una delle più gravi complicanze associate all’infezione da coronavirus, specialmente nei pazienti con fattori di rischio preesistenti, i dati di questo nuovo studio suggeriscono che, nel follow-up a 1 mese dalla diagnosi di Covid-19, la frequenza di fenomeni legati alla coagulazione del sangue venoso non è significativamente aumentata con l’infezione da coronavirus. “Riconosciamo che i sintomi e la disabilità associati a Covid-19 possono persistere per mesi” hanno osservato i ricercatori che, tuttavia, indicano come “la durata di 30 giorni della tromboprofilassi ambulatoriale proposta negli studi clinici possa essere sufficiente a mitigare la tromboinfiammazione mediata dal virus”.

Per arrivare a queste conclusioni, i ricercatori hanno eseguito uno studio di coorte retrospettivo su oltre 220mila adulti del piano sanitario Kaiser Permanente della Northern California Health Care, testati per Sars-Cov-2 dal 25 febbraio al 31 agosto 2020. Per ciascun paziente è stato caratterizzato un profilo in base alle informazioni demografiche, patologie preesistenti, sede del test e livello di cura ricevuto, escludendo dallo studio coloro che erano asintomatici al momento del tampone o che avevano ricevuto terapie anticoagulanti nell’ultimo anno. “Abbiamo valutato l’incidenza e la tempistica del tromboembolismo venoso a 30 giorni – spiegano gli studiosi  – . L’11,8% delle persone testate per Sars-Cov-2 ha ricevuto un risultato positivo e, entro 30 giorni dal test, il tromboembolismo venoso è stato diagnosticato in 198 pazienti (0,8%) positivi e in 1.008 (0,5%) dei pazienti con risultato negativo (p < 0,001)”.

Nel commentare i dati, gli studiosi hanno dunque argomentato contro l’uso di routine di tromboprofilassi ambulatoriale al di fuor degli studi clinici. Ad ogni modo, hanno concludono, “gli studi clinici randomizzati in corso determineranno se i rischi e i benefici dell’anticoagulazione profilattica nei pazienti ambulatoriali con Covid-19 miglioreranno i risultati clinici. Sono inoltre necessari ulteriori studi e analisi longitudinali per comprendere il ruolo del trattamento ambulatoriale e ospedaliero nel tromboembolismo a 90 giorni”.

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