Più morti di infarto per paura di contrarre l’infezione da coronavirus in ospedale
La paura di contrarre l’infezione da coronavirus ha determinato un sensibile calo degli accessi in ospedale per eventi cardiovascolari, comportando un’impennata dei decessi per infarto acuto del miocardio durante le prime settimane della pandemia di Covid-19. È quanto emerge da un nuovo studio pubblicato su Jama Cardiology che ha preso in esame i ricoveri avvenuti nel periodo compreso tra il 30 dicembre 2018 e il 16 maggio 2020 in uno dei principali sistemi di assistenza sanitaria degli Stati Uniti, il Providence St. Joseph Health che ha sedi in sei Stati (Alaska, Washington, Montana, Oregon, California e Texas). Complessivamente sono stati analizzati oltre 15mila ricoveri di cui 14.724 relativi a pazienti con infarto acuto del miocardio, uno degli eventi cardiovascolari più gravi – classificabile in STEMI (infarto miocardico con sopraslivellamento del tratto ST) e NSTEMI (infarto miocardico senza sopraslivellamento del tratto ST) – per cui la tempestività dei soccorsi è cruciale per la sopravvivenza dei pazienti.
Più morti di infarto per paura di Sars-Cov-2 in ospedale
I risultati dello studio hanno indicato che, a partire dal 23 febbraio 2020 e per cinque settimane, i tassi di ospedalizzazione per questi eventi sono sensibilmente diminuiti, con un tasso di mortalità per STEMI significativamente aumentato. “Lo studio – scrivono i ricercatori – ha rilevato importanti cambiamenti nei tassi di ospedalizzazione per infarto del miocardio acuto. Questa diminuzione riflette probabilmente molteplici fattori di cui il più preoccupante è la riluttanza dei pazienti a rivolgersi al medico per paura di contrarre l’infezione da Sars-Cov-2”.
L’analisi ha infatti messo in evidenza che a partire dal 23 febbraio i ricoveri per infarto acuto del miocardio sono diminuiti con un tasso di -19% di casi a settimana per cinque settimane, un periodo che corrisponde all’inizio della pandemia di Covid-19. Successivamente, i ricoveri sono ripresi a salire con un tasso del +10,5% di casi anche se non sono tornati ai valori basali neppure nell’ultima settimana valutata (10 maggio 2020). “Tendenze simili – si legge sempre nello studio – sono state osservate nel sistema del Providence St. Joseph Health in tutti i sei Stati. Nei casi di STEMI, il tasso di mortalità è stato sostanzialmente più alto durante tutte le settimane segnate dal Covid-19, con un aumento graduale rispetto ai mesi precedenti”.
I risultati hanno inoltre mostrato un abbassamento dell’età media dei pazienti ospedalizzati (da 1 a 3 anni più giovani), periodi di degenza più brevi e la maggiore propensione dei pazienti ad essere dimessi in tempi brevi. “Possibili spiegazioni a questi risultati erano una maggiore riluttanza da parte dei pazienti più anziani a cercare cure mediche, la preferenza dei pazienti per la dimissione anticipata e la preoccupazione del rischio di contrarre l’infezione da coronavirus nelle strutture di assistenza post-acuta” .
Le conclusioni della ricerca rafforzano quanto osservato in altri report pubblicati in questi mesi, compresi gli studi condotti in Austria, Italia e California, dai quali sono emersi tassi di ospedalizzazione più bassi sia per infarto miocardico con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI) sia per infarto miocardico senza sopraslivellamento del tratto ST (NSTEMI).
“Coerentemente con i rapporti precedenti – concludono i ricercatori – questo studio ha rilevato una sostanziale diminuzione dei tassi di ospedalizzazione per infarto acuto del miocardio nel primo periodo di Covid-19. A partire dal 29 marzo 2020, tuttavia, i ricoveri sono tornati ad aumentare, anche se a un ritmo più lento. Tra i diversi fattori probabilmente associati a questo rimbalzo, l’incoraggiamento ai pazienti con sintomi o segni di eventi cardiovascolari a rivolgersi immediatamente a un medico anche durante la pandemia”.