Perché l’efficacia al 100% del vaccino Covid di Moderna non significa immunità totale
A due mesi dalla seconda e ultima dose del vaccino anti-Covid di Moderna somministrata ai volontari del trial clinico di fase 3, la società di biotecnologie statunitense ha annunciato i dati di efficacia primaria della sperimentazione che ha coinvolto 30mila persone di età pari o superiore ai 18 anni, compresi soggetti ad alto rischio di sviluppare forme gravi della malattia (persone di età superiore ai 65 anni o con malattie croniche, come diabete, obesità e malattie cardiache) che rappresentano il 42% dei partecipanti allo studio. I dati indicano un’efficacia del 94,1%, percentuale che sale al 100% se riferita alle forme gravi di malattia, risultati con cui la società ha congiuntamente annunciato di presentare la richiesta di autorizzazione all’uso di emergenza (EUA) alla Food and Drug Administration (FDA), l’ente regolatorio degli Stati Uniti che dovrebbe riunirsi il prossimo 17 dicembre per la revisione. Ma cosa c’è dietro ai due dati di efficacia e perché c’è nessun riferimento alla protezione dall’infezione?
I due dati di efficacia (94,1% e 100%) si riferiscono entrambi alla protezione dalla malattia e non all’efficacia intesa come protezione dall’infezione: in particolare, il primo (94,1%) è riferito a 196 casi di Covid-19 accertati a due mesi dalla seconda dose di vaccino, di cui 185 si sono verificati nel gruppo di volontari cui è stato somministrato placebo contro 11 casi che si sono verificati nel gruppo che ha ricevuto il vaccino. Un rapporto che porta dunque alla stima del 94,1% in termini di efficacia di protezione dalla malattia e, come detto, non dall’infezione, un aspetto che non fa parte degli endpoint dello studio, vale a dire che non è uno degli obiettivi perseguiti con i test clinici. Almeno in questa fase, sappiamo dunque che il 94,1% delle persone che verranno vaccinate non svilupperà sintomi della malattia ma potrebbe essere comunque contagiosa. In altre parole, è possibile che nonostante la vaccinazione, una persona possa comunque contrarre l’infezione senza mostrare sintomi di Covid-19. Una situazione che, di fatto, si tradurrebbe in vaccino non utile per raggiungere l’immunità di gregge.
L’endpoint secondario, ovvero il secondo obiettivo della sperimentazione di fase 3, è stato quella di verificare l’efficacia in termini di protezione dalle forme gravi della malattia: i dati indicato che sul totale di 196 casi di Covid-19 accertati, nell’analisi sono stati registrati 30 casi gravi che si sono verificati tutti nel gruppo cui è stato somministrato placebo. Ciò significa che, a oggi, nessuno dei partecipanti allo studio cui è stato somministrato il vaccino ha sviluppato una forma grave di Covid-19. Da segnalare, inoltre, che durante il trial clinico si è verificato anche un decesso correlato a Covid-19 e che la vittima faceva parte del gruppo placebo.
Quanto al profilo di sicurezza del vaccino, i cui risultati sono stati precedentemente descritti nell’analisi ad interim pubblicata lo scorso 16 novembre, Moderna ha comunicato che è in corso una revisione continua dei dati e che, al momento, non sono stati identificati particolari problemi legati alla tollerabilità. Le reazioni avverse più comuni comprendono dolore nel sito di iniezione, affaticamento, mialgia, artralgia, mal di testa ed eritema / arrossamento nel sito di iniezione. Effetti che, ha puntualizzato Moderna, sono aumentati in termini di frequenza e gravità dopo la somministrazione della seconda cose di vaccino.
Come per gli altri vaccini in dirittura d’arrivo, anche i dati relativi alla formulazione sviluppata da Moderna verranno sottoposti a revisione paritaria per la pubblicazione sulle riviste scientifiche. Una delle principali caratteristiche di questo vaccino risiede nella strategia adottata per indurre la risposta immunitaria, vale a dire che la formulazione si basa su Rna messaggero che codifica per una forma stabilizzata della proteina Spike che Moderna ha sviluppato in collaborazione con i ricercatori del Centro di ricerca dei vaccini del NIAID, il National Institute of Allergy and Infectious Disease degli Stati Uniti. Il materiale genetico si trova racchiuso in capsula di nanoparticelle lipidiche e, una volta somministrato, induce la risposta immunitaria che può dunque proteggere dalla malattia. Rispetto al concorrente sviluppato da Pfizer/BioNTech basato su questa stessa tecnica, il vantaggio del vaccino di Moderna è che potrà essere conservato alla temperatura di refrigerazione classica dei vaccini (meno 2-8 gradi), rendendo più semplice il trasporto e lo stoccaggio.