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Perché le terre sacre dei popoli indigeni sono fondamentali per lotta ai cambiamenti climatici

Diverse delegazioni in rappresentanza dei popoli indigeni si sono recate a Glasgow per protestare contro la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP26), dalla quale sono state escluse nonostante siano tra le principali vittime del riscaldamento globale e delle cause che l’hanno scatenato. Le terre sacre dei popoli indigeni, inoltre, giocano un ruolo fondamentale nella lotta al cambiamento climatico.
A cura di Andrea Centini
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Come sottolineato a più riprese da Greta Thunberg e da altri attivisti ambientalisti, la lotta al riscaldamento globale non deve passare solo per l'abbattimento delle emissioni di anidride carbonica (CO2) in atmosfera, ma anche attraverso la cosiddetta “Giustizia Climatica”, un risarcimento danni a favore dei popoli svantaggiati che stanno subendo le conseguenze peggiori dei cambiamenti climatici, pur non essendone gli artefici. Tra chi è più colpito dalle cause e dalle conseguenze della “febbre della Terra” vi sono soprattutto i popoli indigeni, molti dei quali stanno lottando contro l'incessante disboscamento e la costruzione di industrie e miniere sulle proprie terre, responsabili di catalizzare le concentrazioni di CO2 atmosferica in due modi diversi: da una parte la distruzione delle foreste, in grado di “catturare” parte dell'anidride carbonica, dall'altra continuando a immetterne di nuova attraverso l'estrazione/sfruttamento del carbone e altri combustibili fossili. Ma alcuni popoli indigeni rischiano di dover dire per sempre addio alla propria terra anche a causa dell'innalzamento del livello del mare provocato dallo scioglimento del ghiaccio, anch'esso innescato dal cambiamento climatico. Si stima infatti che entro il 2100 spariranno sott'acqua molteplici atolli dell'Oceano Pacifico, molti dei quali abitati da popolazioni indigene.

A causa della situazione drammatica vissuta dalle popolazioni indigene, note per il fortissimo legame con la terra natia, alcune delegazioni si sono recate alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP26) attualmente in corso di svolgimento a Glasgow, in Scozia, per protestare contro i potenti della Terra e per la loro esclusione dal potere decisionale nella lotta al riscaldamento globale. Come sottolineato al Guardian da Eriel Deranger, direttore esecutivo presso l'Indigenous Climate Action, dopo l'Accordo di Parigi le popolazioni indigene sono diventate più visibili a livello mediatico, tuttavia non vengono prese sul serio e sono romanticizzate, oltre che sfruttate. “Stanno cercando di raccogliere e preservare la conoscenza indigena continuando a escluderci dal processo decisionale e dalle posizioni di potere effettive. È l'unica leva che abbiamo per responsabilizzare stati e governi, ma è lo stesso sistema paternalistico di sempre. Siamo fatti per fallire, quindi è qui che deve entrare in gioco la società civile”, ha aggiunto Deranger.

Sebbene durante la COP21 di Parigi fu riconosciuto il ruolo fondamentale delle popolazioni indigene nel contrasto ai cambiamenti climatici, alle parole non seguirono i fatti, come dimostra ciò che sta accadendo nel mondo. In Brasile, ad esempio, da quando si è insediato il presidente Jair Bolsonaro, noto per le sue politiche antiambientaliste, il disboscamento della Foresta Amazzonica è quadruplicato, passando da 1 milione di ettari persi all'anno a ben 3,9 milioni di ettari, mettendo a serio rischio le popolazioni indigene che vi vivono. Un altro dei casi più emblematici è quello legato alla foresta di Hasdeo, nello Stato di Chhattisgarh in India, dove sopravvivono diverse comunità di Adivasi; qui è stata costruita una grande miniera di carbone e potrebbe presto esserne costruita un'altra. Il popolo si batte strenuamente per proteggere le proprie terre sacre, ma i programmi del premier indiano Modi sembrano andare in tutt'altra direzione. Complessivamente, infatti, il governo indiano ha intenzione di ampliare circa 200 miniere già presenti nel Paese e costruirne oltre 50 di nuove. Non è un caso che l'India abbia sottolineato l'intenzione di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2070, due decenni più tardi del target dell'Unione Europea e altri Paesi. Ma se non remeremo tutti nella stessa direzione e subito nell'abbattere le emissioni di CO2, non riusciremo a contenere l'aumento delle temperature entro 1,5° C rispetto all'epoca preindustriale, con conseguenze drammatiche per tutta l'umanità.

I popoli indigeni non si fidano nemmeno delle politiche legate alla creazione di nuove aree protette, che spesso collimano con privazioni di terre, abusi, persecuzioni e spesso anche con gli omicidi. Le popolazioni indigeni stanno protestando a Glasgow non solo per l'esclusione dal potere decisionale sul cambiamento climatico, ma anche per commemorare per le numerose vittime che si battevano in difesa dell'ambiente. Sono stati oltre seimila gli attivisti uccisi dall'Accordo di Parigi, un terzo dei quali indigeni. Fra essi anche Berta Cáceres del popolo Lenca, che vinse il premio Goldman come difensore dell'ambiente. Fu uccisa nel 2016 a colpi di arma da fuoco nella sua casa in Honduras, dove si era strenuamente opposta alla costruzione di una diga sul fiume sacro per il suo popolo. “La COP è un grande business, una continuazione del colonialismo in cui le persone vengono non per ascoltarci, ma per fare soldi con la nostra terra e con le risorse naturali”, ha dichiarato Ita Mendoza dalle strade di Glasgow, dove si trova in rappresentanza del suo popolo indigeno dell'Oaxaca in Messico. I leader degli indigeni vedono nella riforestazione, nell'uso di biocarburanti e nelle altre soluzioni proposte dai potenti presenti alla COP26 un altro modo per privarli delle loro terre, che determinerà ulteriore sofferenza, oltre che perdita ambientale e culturale.

“La nostra visione è molto diversa da quella di coloro che prendono le decisioni alla COP. Abbiamo connessioni ancestrali con l'ambiente e con la Madre Terra. Questi sono spazi spirituali che non negozieremmo mai o compenseremmo per denaro, ma i gruppi di lavoro non rappresentano le opinioni delle nostre comunità né spiegano cosa significano effettivamente questi mercati del carbonio”, ha affermato al Guardian Ninawa Inu Huni Kui, a capo della Federazione del popolo Huni Kui dell'Amazzonia brasiliana. In definitiva, non vogliono un'industria “green” basata sul colonialismo e sullo sfruttamento delle loro terre, come successo fino ad oggi. I leader della COP26 hanno annunciato che sono stati stanziati 1,7 miliardi di dollari per le popolazioni indigene come riconoscimento del loro ruolo nella protezione del pianeta dal cambiamento climatico, ma come indicato dai leader, servono soluzioni a tutela delle loro terre e del pianeta; il denaro non può compensare il disboscamento e la costruzione di miniere. Le popolazioni indigene controllano foreste in grado di catturare quasi 40 milioni di tonnellate di carbonio, ma alcune di esse, in particolar modo in Amazzonia, sono nel mirino di cercatori d'oro, di attività legate al taglio del legno, alle estrazioni minerarie e agli allevamenti intensivi, che spesso si appropriano di queste terre semplicemente dando fuoco alla vegetazione incontaminata. Quello delle popolazioni indigene è un grido d'allarme disperato; rischiano di perdere tutto in nome del profitto e del benessere di altri, coltivato sulle loro spalle.

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