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Covid 19

Perché l’aumento dei casi di reinfezione da coronavirus non deve preoccuparci

Gli scienziati dell’Erasmus University Medical Center di Rotterdam e dell’Università di Lovanio hanno confermato l’esistenza di altri due casi di reinfezione da coronavirus SARS-CoV-2, una persona anziana dei Paesi Bassi e una cinquantenne belga. L’annuncio è arrivato a un paio di giorni dalla comunicazione del primo caso ufficiale di reinfezione, un trentatreenne di Hong Kong. Ecco perché non dobbiamo preoccuparci.
A cura di Andrea Centini
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A pochi giorni di distanza dall'annuncio del primo caso ufficiale di reinfezione da coronavirus SARS-CoV-2, i medici hanno confermato l'esistenza di altri due casi di questo tipo. Si tratta di pazienti che erano stati infettati dal patogeno emerso in Cina nei mesi scorsi, e che durante l'estate sono stati contagiati una seconda volta. Analisi di laboratorio sulle sequenze genetiche estrapolate dai campioni biologici hanno dimostrato che tutti e tre sono stati infettati da due ceppi distinti, pertanto la seconda è stata una reinfezione vera e propria, e non uno strascico virale del contagio originale (diversi pazienti hanno continuato a risultare positivi ai tamponi rino-faringei per decine e decine di giorni).

Il primo paziente reinfettato dal coronavirus SARS-CoV-2 è stato un trentatreenne di Hong Kong; la prima infezione gli fu diagnosticata nel mese di marzo in patria, e coinvolgeva il ceppo asiatico “originale” del patogeno. La seconda infezione, diagnosticata ad agosto, ha invece coinvolto un ceppo circolante in Europa negli ultimi due mesi; il ragazzo è infatti stato sottoposto a un tampone dopo essere rientrato da una vacanza in Spagna, dove evidentemente è stato esposto al virus. I due nuovi casi riguardano una persona anziana dei Paesi Bassi e una donna belga sui cinquanta anni. A confermare il caso dei Paesi Bassi sono stati la virologa Marion Koopmans dell'Erasmus University Medical Center (Erasmus MC) di Rotterdam e l'Istituto Nazionale per la Sanità Pubblica, mentre il virologo Marc Van Ranst dell'Università Cattolica di Lovanio in un'intervista alla Reuters ha confermato quello del Belgio. Benché non siano stati diffusi dati e generalità dei due pazienti reinfettati in Europa, gli scienziati hanno confermato che hanno sperimentato una seconda infezione più lieve di quella originale. Lo stesso è accaduto col paziente di Hong Kong, che ebbe sintomi lievi alla prima infezione (tosse e febbre) mentre è risultato totalmente asintomatico alla seconda. È stato infatti “scoperto” solo perché sottoposto a tampone obbligatorio all'aeroporto, dopo essere rientrato dalla Spagna.

I primi casi ufficiali di reinfezione non devono creare allarmismo, innanzitutto perché al momento sono soltanto tre su quasi 24 milioni di infezioni ufficiali (come riportato nella mappa interattiva dell'Università Johns Hopkins), e in secondo luogo perché erano comunque erano attesi dagli scienziati. “Solo perché hai sviluppato anticorpi non significa che sei immune”, ha dichiarato la dottoressa Koopmans alla TV olandese NOS, mentre Van Ranst ha sottolineato alla TV belga VRT News che “gli anticorpi della prima infezione non aiutano abbastanza per prevenire la seconda”, e che evidentemente si aspettava una protezione immunitaria più duratura tra un'infezione e l'altra.

L'aspetto positivo è che pur venendo contagiati una seconda volta, la memoria immunitaria ha comunque un effetto e può contrastare l'aggressività della patologia, come dimostrano le tre reinfezioni. “È molto probabile che se sei stato reinfettato dopo qualche tempo, sperimenterai una malattia attenuata”, ha sottolineato a Business Insider il vaccinologo Florian Krammer della Icahn School of Medicine del Monte Sinai a New York. Koopmans ha spiegato alla Reuters che il paziente olandese reinfettato aveva un sistema immunitario indebolito, e che crede che la reinfezione non sia lo standard in questa pandemia, ma l'eccezione. “Non voglio che la gente abbia paura – ha affermato Maria van Kerkhove, responsabile tecnica della risposta all'emergenza COVID-19 dell'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) -, dobbiamo assicurarci che le persone capiscano che quando sono infette, anche quando hanno un'infezione lieve, sviluppano una risposta immunitaria”. Alla luce di queste considerazioni, anche i vaccini non dovrebbero creare problemi di immunizzazione; nell'eventualità che non riescano a proteggere al 100 percento dall'infezione, come del resto capita coi vaccini antinfluenzali, la base di anticorpi e cellule T che si genera dovrebbe essere sufficiente a far sviluppare una malattia attenuata e non grave. Le conferme potremo averle solo quando un vaccino sicuro ed efficace sarà finalmente disponibile per tutti.

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