Perché conviene investire nella ricerca scientifica
L’opinione pubblica, soprattutto in tempi di ristrettezze economiche come quelli attuali, si chiede sempre più spesso se sia davvero il caso di spendere grosse cifre per ambiziosi programmi di ricerca scientifica che, apparentemente, non comportano nessun beneficio per l’umanità. Sapere che la Stazione spaziale internazionale è costata 100 miliardi di dollari – per quanto “spalmati” su un periodo di quasi quindici anni e tra diversi paesi del mondo – non fa certo piacere, benché l’Agenzia spaziale europea ci tenga a sottolineare che la quota di spesa dell’Europa, di gran lunga inferiore, corrisponda a malapena al costo di un caffè all’anno per ogni cittadino comunitario. Ma che dire del Large Hadron Collider (LHC), il gigantesco acceleratore di particelle completato lo scorso al CERN di Ginevra, che al costo di 3 miliardi di euro (più i soldi per ogni singolo esperimento) ci promette di svelare segreti clamorosi sull’universo e la fisica? Qualcuno potrebbe obiettare che con i protoni e i neutrini non si sfamano i poveri del mondo, e avrebbe ragione. Quando si tratta di cifre tanto alte per progetti scientifici apparentemente non utilitaristici – che non producono, cioè, un utile diretto calcolabile per l’umanità – non basta ricordare la frase evangelica “non di solo pane vive l’uomo”. Occorre dare qualche ragione in più per convincere i contribuenti. A provarci è un influente blog americano, “viXra log”, che ha stilato un elenco delle 10 buone ragioni per investire nella grande ricerca scientifica non direttamente correlata al benessere umano: per intenderci, non la ricerca sul cancro o sulle cellule staminali.
I benefici imprevedibili degli spin-off
Gli spin-off tecnologici sono spesso citati dai promotori dei grandi programmi di ricerca. Quando si tratta di realizzare un progetto da zero, o quasi, non tutta la tecnologia necessaria è immediatamente disponibile. Occorre perciò investire in ricerca e sviluppo di tutta una serie di tecnologie propedeutiche al raggiungimento del risultato finale. Nel 2020, si spera, entrerà in funzione nel sud della Francia ITER, l’ambizioso reattore sperimentale di fusione nucleare finanziato da un consorzio dei paesi più avanzati – USA, Europa, Giappone in primis – per accelerare nello sviluppo di un metodo efficiente, economico e pulito per realizzare energia potenzialmente illimitata. Certo, qui il beneficio sociale della ricerca è direttamente quantificabile: se ITER riuscisse nell’intento, entro la fine del secolo la fusione nucleare diventerà la principale fonte d’energia del mondo, risolverà in via definitiva il problema energetico mondiale e manderà in pensione le pericolose centrali a fissione nucleare. Ma i 10 miliardi di euro necessari per mettere su il reattore (costi provvisori probabilmente destinati a crescere) saranno impiegati per realizzare tecnologie di supporto che potranno essere utilizzate in molti altri settori completamente diversi. Laser più precisi, materiali isolanti o conduttori di livello superiore utilissimi per l’industria, e così via.
[quote|left]|Se oggi i nostri smartphone, lettori ebook o tablet funzionano grazie al leggero tocco delle dita, è grazie agli scienziati del CERN di Ginevra.[/quote]L’esperienza, del resto, parla da sola. Al CERN di Ginevra non si gioca solo con l’antimateria, i neutrini e il bosone di Higgs – la cosiddetta “particella di Dio” – ma nel corso degli anni sono nati lì dei “giocattoli” che usiamo oggi nella nostra vita quotidiana. Un nome per tutti, il World Wide Web: il sistema che oggi ci permette di avere siti Internet, blog, forum, Facebook e tutte quelle cose che usiamo ogni giorno e senza le quali non potreste leggere quest’articolo. Il WWW nacque al CERN vent’anni fa dall’idea di uno degli scienziati del centro di ricerca che voleva realizzare un network dove i colleghi potessero condividere i risultati dei loro lavori per via telematica. Ma l’idea, poi, è andata ben oltre le modeste aspettative dei suoi creatori. La tecnologia touchscreen è nata sempre al CERN: se oggi i nostri smartphone, lettori ebook o tablet funzionano grazie al leggero tocco delle dita, è grazie agli scienziati del centro di Ginevra. E se vogliamo fare un esempio più direttamente collegato al nostro benessere, dobbiamo ricordare che la risonanza magnetica che è oggi routine in tutti gli ospedali è nata grazie alla risonanza magnetica nucleare sviluppata al CERN. È di pochi giorni fa, infine, la notizia che nel centro sperimentale per la cura dei tumori di Pavia, voluto da Umberto Veronesi, è stato curato il primo paziente grazie alla rivoluzionaria tecnica che prevede di sparare contro la neoplasia un fascio di protoni accelerato all’interno di un sincrotrone: esattamente quello che si fa nell’LHC.
Il soft power della scienza
Ma c’è anche il prestigio nazionale. Se gli Stati Uniti hanno speso miliardi, dagli anni ’50 in poi, per i propri programmi di esplorazione spaziale umana, era eminentemente per motivi di prestigio. La corsa allo spazio che vide USA e URSS competere per oltre trent’anni in una serie vertiginosa di successi sempre maggiori fu tutto sommato possibile perché le due superpotenze volevano così dimostrare la loro superiorità l’una sull’altra. E se la Francia è riuscita, dopo un lungo braccio di ferro, ad avere la meglio sul Giappone nella competizione per ospitare il reattore ITER, il motivo risiede principalmente nel desiderio di grandeur francese; analogamente, agli americani non è piaciuto affatto che Obama abbia mandato in soffitta gli Shuttle e privato gli USA dell’accesso umano allo spazio: dipendere dalla Russia sembra un grosso smacco, nonostante i tempi della Guerra fredda abbiano lasciato il passo alla cooperazione internazionale.
Altro punto: l’intrattenimento scientifico. Documentari televisivi, riviste di divulgazione, blog e siti Internet sulla scienza campano sulle grandi scoperte, quelle che nel bene o nel male colpiscono l’attenzione dell’opinione pubblica. Lo ha dimostrato il recente caso dell’E-Cat, il presunto congegno sperimentale per la fusione nucleare fredda, o quello dei neutrini superluminali, che ha occupato le prime pagine di tutti i giornali. Il principale mensile di divulgazione scientifica in Italia, Le Scienze, ha aumentato le sue vendite negli ultimi due anni, sfiorando il mezzo milione di copie, e anche la rivista Newton, dopo essere fallita nel 2008, è risorta dalle ceneri e sta godendo un buon successo. Segno che c’è sete di conoscenza.
E connesso all’intrattenimento c’è un altro punto, molto più importante: l’istruzione. È noto che i grandi successi del programma spaziale americano, culminati con il primo allunaggio nel 1969, hanno stimolato intere generazioni a dedicarsi a studi scientifici. Ciò ha permesso, in prospettiva, di realizzare altri clamorosi risultati, come il programma Shuttle o la realizzazione della Stazione spaziale internazionale: molti di quei ragazzini che nel ’69 guardavano stupiti Armstrong piantare la bandiera a stelle e strisce sul suolo lunare, lavoravano alla NASA meno di vent’anni dopo. Ed è per questo che l’Agenzia spaziale americana ha deciso, quest’anno, di finanziare la pubblicazione di nuovi romanzi di fantascienza ambientati nello spazio: è noto che molti dei pionieri del programma Apollo consumavano, giovanissimi, le pagine dei pulp magazine di fantascienza. Intere generazioni di scienziati e ingegneri si sono formati sulle pagine dei romanzi di Isaac Asimov, che oltre a essere un brillante romanziere era anche un rigoroso divulgatore scientifico. Se anche l’Italia vuole ripopolare le sue facoltà scientifiche, non ha che da investire in grandi programmi di ricerca e sviluppo che facciano sognare.
L'occupazione e l'indotto della ricerca scientifica
[quote|left]|Secondo gli esperti, per 1 euro speso nei programmi spaziali se ne ricavano 6.[/quote]Non dimentichiamoci, poi, l’occupazione. Grandi programmi scientifici impiegano migliaia di persone, e questo ai politici piace molto. Al suo apice, il programma Apollo dava lavoro a qualcosa come 400.000 persone. I numeri del CERN sono senz’altro più piccoli, ma comunque ragguardevoli: il complesso che ospita l’acceleratore più grande del mondo dà lavoro direttamente a 2500 persone, e indirettamente ad almeno altri 6500 scienziati di tutto il mondo che collaborano a distanza (per esempio, quelli dell’Istituto nazionale di fisica nucleare del Gran Sasso che cooperano con il CERN per alcuni esperimenti). Si tratta, ed è la questione più importante, di posti di lavoro ad alta specializzazione. Un grande programma scientifico costituisce un freno significativo alla fuga dei cervelli: per questo è sicuramente una buona notizia che il Governo italiano abbia finanziato la costruzione di un piccolo ma importante acceleratore di particelle fuori Roma, che darà lavoro a molti giovani scienziati nostrani.
E non dimentichiamo l’industria dell’indotto. Gli spin-off tecnologici a cui si accennava sopra danno vita, spesso, a nuove industrie e stabilimenti di ricerca privati che a loro volta danno lavoro a centinaia o migliaia di persone: grazie ai sub-contratti stipulati con piccole e medie imprese, LHC ha portato alla nascita di fiorenti aziende di superconduttori, criogenica, informatica ad alte prestazioni. I soldi spesi in questi progetti, insomma, non vanno persi: secondo gli esperti, ad esempio, per 1 euro speso nei programmi spaziali se ne ricavano 6. Mica male!
Cooperazione internazionale
Negli ultimi anni, la cooperazione internazionale è stata spinta dalla scienza. In realtà, è così praticamente da sempre. Anche negli anni cupi della Guerra fredda, fatti salvi i programmi di interesse nazionale (per dire, quelli nucleari o spaziali), gli scienziati dei due blocchi si incontravano regolarmente nei grandi convegni internazionali per discutere le loro ultime scoperte. La scienza è fatta di cooperazione. Quando l’Unione sovietica crollò, il presidente americano Bill Clinton ebbe la buona idea di coinvolgere, nel programma allora appena nato della Stazione spaziale internazionale, anche i russi, che già avevano in orbita la loro Mir. I russi accettarono: cosa che solo cinque anni prima sarebbe stato impensabile. Tale è ora, invece, il grado di cooperazione tra USA e Russia, che la NASA può fare a meno degli Shuttle inviando i propri astronauti in orbita con le sole Soyuz russe. Si può dire che la cooperazione spaziale negli anni ’90 abbia avuto un ruolo molto importante nella fine del bipolarismo. Tutti i grandi programmi scientifici recenti sono fondati sulla cooperazione internazionale: lo è LHC come il progetto ITER. Anche tutte le missioni spaziali europee sono realizzate con la condivisione dei costi tra tutti i partner. Ciò riduce di molto le spese per ciascun paese, massimizzando i guadagni. Per questo, anche la futura missione umana su Marte – che ora sappiamo non essere solo un spreco di soldi, ma un grande investimento – sarà realizzata con una grande partnership internazionale. Che, volente o nolente, coinvolgerà anche la Cina.
E in ultimo, non dobbiamo dimenticare che se facciamo scienza lo facciamo anche per qualcosa che non si quantifica: la conoscenza. Da quando i nostri antenati, scoprendo il fuoco, iniziarono a sfruttarne le potenzialità, il desiderio di conoscenza umano non è mai venuto meno. Non si guadagna niente a scoprire perché l’universo sta accelerando e cos’è l’energia oscura, o se esista o meno il bosone di Higgs o cosa c’era prima del Big Bang. Ma continueremo a cercare di scoprirlo, nonostante tutto. È ciò che ci rende esseri umani.