Microsfere nei cosmetici: cosa sono e perché sono pericole

Nel dentifricio, nello scrub per il viso e per il corpo, così come in alcuni detergenti, sono presenti delle microsfere o microbiglie di plastica che, se all'apparenza hanno un'utilità cosmetica, nella realtà dei fatti sono pericolose per l'ambiente. L'allarme arriva direttamente dagli Stati Uniti dove alcuni Stati hanno già iniziato a vietarne la produzione e la vendita all'interno dei prodotti per la cura della persona, come spiega uno studio intitolato “Scientific Evidence Supports a Ban on Microbeads” e pubblicato su Environmental Science and Technology dai ricercatori della Oregon University.
Queste microsfere sono parte infatti del problema della plastica che affligge e inquina i nostri mari, ma anche i fiumi e i laghi. Stiamo parlando di palline di una grandezza che varia da 5 μm a 1 mm realizzate con polimeri sintetici inclusi il polietilene, acido polilattico, polipropilene, polistirene o polietilene tereftalato, utilizzate in sostituzione ad esfolianti naturali come la pietra pomice e progettate per poter “viaggiare” negli scarichi. Il loro impatto ambientale è devastante, sono infatti 3 i trilioni di microsfere che, solo negli Stati Uniti, ogni giorno finiscono giù dai lavandini per raggiungere i corsi d'acqua, questo numero corrispondere a circa 300 campi da tennis.
Presupponendo che il 99% di queste biglie venga catturato durante la sedimentazione, ne restano 800 trilioni che finiscono per accumularsi nei detriti fognari. Non è difficile immaginarsi il tipo di impatto che le microsfere possono avere sugli animali che ne entrano in contatto e che rischiano intossicazioni o soffocamento.
Questi dati dimostrano perché in alcuni Stati americani si è richiesto di vietarne la vendita e in questo senso sono già attive molte aziende specializzate proprio nella produzione di cosmetici. Si calcola infatti che per il 2018 la regolamentazione in materia sarà molto rigida tanto che le microsfere saranno o vietate o sostituite con altre biodegradabili.
[Foto copertina di Oregon State University]