L’uomo ha iniziato a modificare la Terra 12.000 anni fa
Ad eccezione dell’Antartide, l’uomo aveva già occupato e modificato la maggior parte della massa continentale della Terra 12mila anni fa. Lo ha concluso un nuovo studio internazionale che mette in discussione i presupposti precedenti secondo cui buona parte del pianeta era rimasta relativamente inalterata fino alla rivoluzione industriale. Tuttavia, i cambiamenti dell’Antropocene trasformarono gli ecosistemi in modo sostenibile, piuttosto che causarne il collasso come accaduto più di recente.
Almeno 12mila anni di modifica degli ecosistemi
“Il nostro lavoro mostra che la maggior parte delle aree finora ritenute incontaminate, selvagge o naturali ha in realtà una lunga storia di insediamento e uso umano” ha affermato Erle Ellis, scienziato ambientale e professore dell’Università del Maryland, negli Stati Uniti, una delle dieci istituzioni internazionali che ha ricostruito l’uso storico globale del suolo.
Prima dell’agricoltura intensiva, rilevano gli studiosi, l’azione umana veniva esercitata attraverso pratiche come la combustione stagionale, la caccia diffusa e la semina. “Le società utilizzarono i loro territori in maniera da sostenere la maggior parte della biodiversità nativa, persino aumentandone la biodiversità stessa, la produttività e la resilienza – ha aggiunto Ellis – . Le nostre mappe globali mostrano che, anche 12mila anni fa, quasi tre quarti della natura terrestre era abitata, utilizzata e modificata dalle persone. Le aree incontaminate erano pressoché rare, così come lo sono oggi”.
Queste mappe, che possono essere visualizzate in modo interattivo online, rivelano il tipo di alterazione degli ecosistemi da parte degli esseri umani nel tempo e la loro interpretazione è stata pubblicata in un nuovo studio su PNAS. “Nel complesso, il problema non è l’uso umano di per sé – spiega la professoressa e coautrice dello studio Nicole Boivin dell’Istituo Max Planck per la scienza della storia umana a Jena, in Germania – . Il problema è il tipo di uso del suolo che vediamo nelle società industrializzate, caratterizzato da pratiche agricole insostenibili, estrazione e appropriazione assoluta”.
Le pratiche sostenibili di uso del suolo
L’attuale crisi della biodiversità, sostengono gli autori dello studio, può difficilmente essere spiegata dalla sola perdita di terre selvagge disabitate ma è il risultato invece di appropriazione, colonizzazione e uso intensivo dei territori della biodiversità a lungo modificati e sostenuti dalle società precedente. Implicitamente, gli esseri umani possono fermare (e invertire) i danni causati finora pur continuando a trarre vantaggio da questi territori. Spesso la strada più rapida per farlo è quella di abbracciare la conoscenza delle popolazioni che hanno gestito le aree in modo sostenibile per così tanto tempo, laddove tale conoscenza sopravvive. “Dare questa possibilità alle popolazioni indigene, tradizionali e locali che conoscono la loro natura, nel modo in cui gli scienziati stanno iniziando a comprendere, è essenziale” ritiene Ellis.
Complessivamente, solo il 5% della massa continentale del pianeta è attualmente gestito, anche parzialmente, da popolazioni indigene sebbene circa l’80% della biodiversità sopravviva in queste aree. “Dobbiamo assicurarci che i nuovi tentativi di salvaguardare il pianeta e la biodiversità non siano solo l’appropriazione delle terra indigene – ha affermato Darren Ranco, professore associato di antropologia e coordinatore della ricerca sui nativi americani presso l’Università del Maine – . Non possiamo ricreare la peggiore delle politiche coloniali intesa a escludere i popoli indigeni, il che senza dubbio peggiorerebbe la situazione per l’ambiente e l’umanità”.
Lo studio propone dunque una nuova forma di collaborazione tra archeologia, scienza del cambiamenti globali, conservazione e conoscenza indigena, con la speranza di aprire la strada a un aumento dell’impiego di dati storici sull’uso del suolo globale da pare di ricercatori, responsabili politici e attivisti. “È chiaro che le prospettive delle popolazioni indigene e locali dovrebbero essere in prima linea nei negoziati internazionali per ridurre la perdita della biodiversità – ha concluso Rebecca Shaw, responsabile scientifico del World Wildlife Fund e coautrice dello studio – . C’è una crisi globale nel modo in cui la terra tradizionalmente utilizzata è stata trasformata dalla portata e dall’entità dello sviluppo umano intensivo. Dobbiamo cambiare rotta se vogliamo sostenere l’umanità nei prossimi 12mila anni”.