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Le quattro giornate di Napoli, una medaglia al valore del nostro paese

Quando gli americani giunsero a Napoli, trovarono una città già libera: il popolo, disperato e affamato, con le sue ultime forze aveva messo in fuga i nazisti, durante quattro giornate di combattimenti consumatisi tra il 27 ed il 30 settembre del 1943. Una storia da ricordare con orgoglio, nell’anno in cui celebriamo i 150 anni dell’Unità Nazionale.
A cura di Nadia Vitali
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Come poteva accadere che una città stremata da quattro anni di bombardamenti che ne avevano decimato le forze militari e civili, quasi in 30 000 perirono sotto il fuoco indiscriminato dal ’40 al ’43,  che sventrò abitazioni e palazzi, nonché parti di quel patrimonio artistico invidiato dal mondo, con la Chiesa di Santa Chiara che arse per quattro giorni dopo aver subito il bombardamento del 4 dicembre del ’42 in cui persero la vita 3000 persone, ebbene come poteva accadere che questa città, povera, affamata, avvilita e ormai popolata solo dallo spettro della disperazione potesse insorgere contro il gigante nazista, facendosi Davide di fronte a Golia?

Inspiegabile e drammatica, eppure, la rivolta partì, entrando a far parte con gloria della storia patria: una gloria che fece meritare alla città di Napoli la Medaglia d’oro al Valor Militare, conferitale il 10 settembre del 1944, per quella sollevazione popolare che, in sole quattro giornate dal 27 al 30 di settembre del 1943, liberò la città dalle forze tedesche. Un evento che merita di essere ricordato ulteriormente nell’anno in cui festeggiamo il centocinquantesimo anniversario dell’Italia, unita in un solo ed unico popolo. E come recita la Motivazione ufficiale del conferimento della Medaglia:

Con superbo slancio patriottico sapeva ritrovare, in mezzo al lutto ed alle rovine, la forza per cacciare dal suolo partenopeo le soldatesche germaniche sfidandone la feroce disumana rappresaglia. Impegnata un'impari lotta col secolare nemico offriva alla Patria, nelle "Quattro Giornate" di fine settembre 1943, numerosi eletti figli. Col suo glorioso esempio additava a tutti gli Italiani, la via verso la libertà, la giustizia, la salvezza della Patria.

Come successe nel resto d’Italia, dopo la lettura del proclama da parte del maresciallo Badoglio l’8 settembre del 1943, tutte le forze militari si ritrovarono sole e senza punti di riferimento: in altre parole, allo sbando. L’abbandono dei soldati, unito alla connivenza di alcuni alti ufficiali con le truppe naziste e alla fuga di coloro i quali erano militarmente responsabili della città, contribuì con maggiore rapidità ad un clima in cui i tedeschi si insediarono con il preciso scopo di tenere Napoli sotto assedio, rastrellandola, cercando prigionieri da deportare per i lavori forzati in Germania, creando il terrore generale tramite uccisioni indiscriminate e mettendo a ferro e fuoco quello che restava. Un comunicato giunto da Berlino, ordinava al comandante Scholl di abbandonare la città solo in caso di avanzata degli alleati e, comunque, non prima di averla ridotta “in cenere e fango”.

Tra il 12 ed il 13 settembre, dopo numerosi saccheggi e violenze, dopo aver costretto i cittadini ad abbandonare le proprie case e ad assistere agli incendi di queste, vennero uccise decine di militari, civili e più di cento persone che erano ricoverate negli ospedali. Due episodi vengono ricordati come i più emblematici della barbarie nazista e della rabbia che, inevitabilmente, salì dalle viscere di quel paese ormai allo stremo; il primo avvenne il 12 di settembre, quando i cittadini furono costretti ad assistere all’esecuzione di un marinaio di poco più di vent’anni, che passava casualmente per il Corso Umberto, sulle scale dell’Università Federico II, che era divenuta dopo il 25 luglio uno dei centri di raccolta degli antifascisti, sotto l’ala di protezione del Rettore Adolfo Omodeo. Di questo giovane marinaio non si è mai conosciuto il nome, ma il suo ultimo grido di disperazione restò impresso nei cuori e nelle menti di tutti coloro che decisero che non avrebbero potuto permettere che atti del genere si ripetessero nella terrorizzata passività. «Surdato ignoto resta senza nomme, ma è ricurdato pe ll’eternità!» recita l’ultimo verso della poesia di Aldo De Gioia, incisa sulla lapide che commemora la triste sorte del soldato, alla stazione marittima.

Il secondo episodio che fece scoppiare la polveriera che in quelle settimane di indicibili soprusi si era andata accumulando, avvenne al Vomero. I napoletani, ormai, erano tutti in armi, pronti a dover reagire alla deportazione di massa annunciata con un comunicato dal Comandante Scholl; in un bar del quartiere collinare della città partenopea, ad alcuni giovani giunse notizia dell’esecuzione, a sangue freddo, di un giovane marinaio che beveva da una fontanella nei pressi dell’Ospedale Militare. Tutto si scatenò in quel momento; inaspettati, i giovani giunsero là dove erano i tedeschi, ne bruciarono la jeep dopo averli fatti scendere dall’auto. I tre ebbero appena il tempo di fuggire e dare l’allarme; ma ormai, la ribellione era partita.

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Da quella mattina del 28 settembre per i giorni successivi ci fu la lotta aperta, con armi di ogni genere, molto spesso rimediate alla buona, come i fucili della I Guerra Mondiale o i moschetti dei balilla; altre vennero recuperate man mano che si avanzava nel conflitto. Barricate furono erette in città con mezzi di fortuna, agguati non vennero risparmiati, tutto il popolo si unì, non sotto la bandiera dell’antifascismo ma, semplicemente, della libertà: bene primario ed irrinunciabile, oltre qualunque colore politico. La sorpresa per la ribellione tenace fu certamente uno dei fattori che portarono al buon esito di quell'eroica azione. Oltre duemila combattenti parteciparono, più di cento caddero in battaglia, molti di essi sono stati insigniti delle medaglie al valor militare; e il giorno 1 ottobre poterono consegnare all'Italia una città, finalmente, libera dall’incubo peggiore che si possa immaginare.

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