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Covid 19

Le caratteristiche della variante inglese del Covid: tutto quello che (non) sappiamo

Scoperta nel mese di settembre, la variante inglese del coronavirus SARS-CoV-2 chiamata “B.1.1.7” si è diffusa rapidamente nell’Inghilterra sudorientale e ha ormai raggiunto diversi Paesi. Questo lignaggio è caratterizzato da 17 mutazioni (14 amminoacidiche e 3 delezioni) che l’avrebbero reso molto più trasmissibile del ceppo originale, fino al 70 percento. Ad oggi, tuttavia, non vi è ancora la certezza, così come non sappiamo se essa provochi sintomi peggiori o riesca a “eludere” i nuovi vaccini. Ecco tutto quello che sappiamo su questa variante.
A cura di Andrea Centini
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L'entusiasmo per l'avvio della campagna vaccinale contro il coronavirus SARS-CoV-2 in Gran Bretagna e negli Stati Uniti – e che nei prossimi giorni partirà anche nei 27 Paesi dell'Unione Europea – è stato sopraffatto dal punto di vista mediatico dalla circolazione della cosiddetta “variante inglese” del patogeno, un ceppo – chiamato B.1.1.7 – che si sta diffondendo a gran velocità e in modo incontrollato nell'Inghilterra sudorientale, e che ormai è stato isolato anche in altri Paesi. Le preoccupazioni maggiori relative a questa variante sono legate alla maggiore trasmissibilità (da acclarare, benché gli indizi siano significativi), al potenziale rischio che possa innescare una COVID-19 più grave – sebbene al momento non si registrino differenze nei sintomi – e alla capacità di eludere la protezione offerta dai “freschissimi” vaccini (come quello di Pfizer appena approvato). Insomma, questa variante mutata del coronavirus è piombata come un meteorite sulle fondamenta della rinnovata fiducia costruita grazie al vaccino, innescando reazioni a catena che stanno sfociando nell'isolamento del Regno Unito. Stop a voli e treni, quarantena obbligatoria per i viaggiatori di rientro e “caccia” a tappeto ai contatti sono alcune delle iniziative messe in campo. Ma cosa sappiamo esattamente del B.1.1.7? Dobbiamo davvero preoccuparci? Ecco cosa dicono gli scienziati e a che punto è la ricerca.

Le mutazioni sono normali

Benché il ceppo sia nel mirino di autorità sanitarie e istituzioni, è innanzitutto doveroso sottolineare che al momento non vi sono certezze assolute sulle sue caratteristiche "potenziate", pertanto gli scienziati predicano cautela e buon senso, indicando di aver bisogno di tempo per analizzare i dati e trovare tutte le conferme del caso. Come specificato in un comunicato stampa dai ricercatori del COVID-19 Genomics UK (COG-UK), organizzazione britannica impegnata nell'analisi e nel sequenziamento del genoma del SARS-CoV-2, i virus mutano naturalmente e il patogeno pandemico non fa eccezione. Sulla base degli studi filogenetici condotti fino ad oggi, il SARS-CoV-2 accumula 1-2 mutazioni al mese, mentre si replica nelle persone contagiate. “Ciò significa che molti dei genomi sequenziati oggi differiscono di circa 20 punti dai primi genomi sequenziati in Cina a gennaio, ma circolano anche molte varianti con meno modifiche”, ha sottolineato l'autorevole rivista scientifica Science in un editoriale dedicato alla variante inglese.

17 mutazioni nella variante inglese

Questa evoluzione del coronavirus può essere seguita praticamente passo dopo passo, ha affermato il genomicista dell'Università di Birmingham Nick Loman, proprio perché il suo genoma è costantemente sotto stretta sorveglianza. Ciò che rende particolare la variante B.1.1.7 rispetto alle altre sono due fattori: l'elevato numero di mutazioni rilevate, ben 17 (14 amminoacidiche e 3 delezioni) acquisite contemporaneamente; e la localizzazione della maggior parte di esse (8) sulla proteina S o Spike, la glicoproteina che il coronavirus sfrutta come un “grimaldello biologico” per legarsi al recettore ACE-2 delle cellule umane, disgregare la parete cellulare, inserire l'RNA virale all'interno e dare il via al processo di replicazione, che è alla base dell'infezione (nota come COVID-19). Proprio per il suo ruolo cruciale nell'infezione, la proteina S rappresenta il primo bersaglio dei vaccini, che puntano a far sviluppare immunità contro di essa. Se infatti il nostro sistema immunitario la riconosce come "nemica" e la attacca, si impedisce al virus di “agganciarsi” alle cellule umane e lo si neutralizza. Ma se la proteina muta, il vaccino potrebbe risultare inefficace, così come potrebbe rendere più trasmissivo e letale (o meno letale) il virus. Avendo B.1.1.7 così tante mutazioni sulla proteina S –  quella che costella la superficie del virus a forma di "ombrellino" – ed essendosi diffuso così rapidamente, è naturale che sia stato messo nel mirino degli scienziati. Ma al momento, come indicato, non vi sono certezze sulle sue capacità "migliorate".

Trasmissibilità stimata superiore al 70%

Le mutazioni relative alla proteina S del coronavirus, come specificato in un comunicato stampa del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC – European Centre for Disease Prevention and Control), sono le seguenti: delezione 69-70; delezione 144; N501Y; A570D; D614G; P681H; T716I; S982A e D1118H. Dalle indagini preliminari si stima che a causa di esse la variante inglese abbia una trasmissibilità superiore al 70 percento, con un potenziale aumento dell'indice Rt di 0.4. È proprio per queste presunte caratteristiche che diversi governi – compreso quello italiano – hanno deciso di sospendere i collegamenti aerei col Regno Unito e di dar vita a un serrato tracciamento dei contatti a rischio. Come afferma il consigliere scientifico capo Patrick Vallance, B.1.1.7 è apparso per la prima volta in un virus isolato il 20 settembre, e già alla metà di novembre rappresentava circa il 26 dei casi. “Entro la settimana iniziata il 9 dicembre queste cifre erano molto più alte. Quindi, a Londra, oltre il 60 percento di tutti i casi era dovuta alla nuova variante”, ha specificato lo scienziato. Delle mutazioni indicate, quelle che preoccupano di più e che potrebbero essere intimamente connesse con il boom di contagi, sono la N501Y, “che ha già dimostrato di aumentare il grado di legame della proteina con il recettore ACE2, il suo punto di ingresso nelle cellule umane”, e la delezione 69-70, “che porta alla perdita di due aminoacidi nella proteina Spike ed è stato trovato in virus che eludevano la risposta immunitaria in alcuni pazienti immunocompromessi”. Nella ricerca “Preliminary genomic characterisation of an emergent SARS-CoV-2 lineage in the UK defined by a novel set of spike mutations” condotta dal CoG-UK si sottolinea che vanno analizzati a fondo anche gli effetti della mutazione P681H, che “è immediatamente adiacente al sito di scissione della furina, una posizione nota di significato biologico”. Gli autori dello studio definiscono l'insieme di mutazioni rilevate nella variante inglese del tutto peculiare: “Il lignaggio B.1.1.7 – scrivono nell'abstract della ricerca – trasporta un numero maggiore del solito di cambiamenti genetici del virus. L'accumulo di 14 sostituzioni amminoacidiche specifiche per il lignaggio prima del suo rilevamento è, ad oggi, senza precedenti nei dati genomici globali del virus per la pandemia COVID-19”.

Cosa dicono gli esperti

Sebbene tutte queste informazioni suggeriscano che la variante inglese abbia effettivamente una maggiore trasmissibilità, come sottolineato a Science dal virologo Christian Drosten dell'ospedale universitario Charité di Berlino, è prematuro affermare che le cose stiano effettivamente così. “Ci sono troppe incognite per dire qualcosa del genere”, ha specificato l'esperto. Drosten fa l'esempio della variante spagnola B.1.177 rilevata questa estate, che si credeva avesse anch'essa una maggiore trasmissibilità, dato il boom di casi rilevati in diverse regioni. Ciò nonostante, adesso non si crede più che lo sia, e il virologo tedesco afferma che la rapida diffusione della nuova variante possa essere stata "determinata dal caso", e non dalle mutazioni rilevate. Anche la virologa Emma Hodcroft dell'Università di Basilea indica che i dati della variante spagnola, all'inizio, erano “confusi e distorti”, dunque bisogna procedere con molta cautela anche su quelli della variante inglese. Meno “ottimisti” gli scienziati dell'Università del KwaZulu Natal, che hanno identificato un'altra variante in Africa con mutazione N501Y, che sembra anch'essa “diffondersi molto più velocemente”, come specificato a Science dal virologo Tulio De Oliveira. Secondo il dottor John Nkengasong, direttore dell'Africa Centers for Disease Control and Prevention, questa variante potrebbe essere in grado di determinare una COVID-19 più grave nei giovani, ma anche in questo caso “è necessario ottenere più dati per esserne sicuri”. Va anche tenuto presente che per lo studio “Neutralising antibodies drive Spike mediated SARS-CoV-2 evasion” guidato dal virologo Ravindra Gupta dell'Università di Cambridge, la delezione 69-70 è apparsa insieme a un'altra mutazione chiamata D796H nel virus di un paziente ricoverato per mesi e poi deceduto. Sottoposto a test di laboratorio, questo virus era meno sensibile al plasma dei guariti ricco di anticorpi rispetto al virus “selvatico” originale. Anche in questo caso, va studiata a fondo la suscettibilità agli anticorpi legata alle mutazioni identificate nella variante inglese.

Cosa fare per arginare la variante inglese

Alla luce di queste premesse, gli ECDC hanno elencato alcuni "consigli" per arginare la diffusione della variante nel mondo. Innanzitutto, raccomandano che tutti i campioni di coronavirus SARS-CoV-2 isolati nei laboratori vengano testati in modo tempestivo per “identificare i casi della nuova variante”, attivando così il sistema di sorveglianza e relativo tracciamento dei contatti. In secondo luogo specificano di usare la PCR (reazione a catena della polimerasi) come indicatore per i nuovi casi; infine chiedono di monitorare gli individui vaccinati per identificare potenziali "fallimenti" dei farmaci, sequenziando i virus isolati per determinarne le caratteristiche genetiche e sapere con cosa sia ha a che fare.

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