La scienza ha ancora bisogno di Dio?
Un giorno il grande matematico e astronomo Laplace fu ricevuto dall’allora Primo Console della Francia, Napoleone Bonaparte, al quale aveva inviato la sua ultima opera, una dissertazione sul cosmo e sulla sua natura. Bonaparte, lettore onnivoro e appassionato di scienze, lo aveva letto e osservò che in tutto il libro non c’era alcun accenno al ruolo di Dio nella creazione del cosmo. Laplace rispose senza battere ciglio: “Cittadino Primo Console, ho fatto a meno di quest’ipotesi”.
Fare a meno dell'ipotesi-Dio
Non avrebbero difficoltà a rispondere con lo stesso tono due grandi scienziati i cui ultimi libri sono stati appena pubblicati sul mercato italiano e anglosassone. Il primo è il nostro Edoardo Boncinelli, tra i massimi esperti di genetica in Italia. Il titolo del suo ultimo libro non lascia spazio all’immaginazione, La scienza non ha bisogno di Dio (Rizzoli). Il secondo è Lawrence Krauss, fisico e cosmologo americano già da tempo attivo nella lotta per la laicità della scienza in un paese, gli Stati Uniti, dove la questione scienza-fede è, paradossalmente, assai più complessa che in Italia. Il suo saggio, A Universe from Nothing, “Un universo dal nulla”, espone le più recenti scoperte nell’ambito della cosmologia di frontiera e le teorie del brillante scienziato e divulgatore su come l’universo sia nato e si sia evoluto, facendo a meno dell’ingombrante “ipotesi” già omessa da Laplace.
La questione di Dio dev’essere relegata all’ambito della filosofia e della teologia, spiega Boncinelli. Anche negli aspetti più complessi della natura, quelli in cui la scienza non è ancora riuscita a dare una chiara spiegazione dei meccanismi che ne sono alla base, tra tutti l’origine dell’universo e l’evoluzione delle specie viventi, si deve fare a meno dell’ipotesi-Dio; altrimenti, la scienza si troverebbe nella condizione di dover abdicare al proprio ruolo. Da studioso della biologia e dell’evoluzione, Boncinelli affronta soprattutto due problemi, due fasi decisive dello sviluppo delle specie viventi sulla Terra. La prima, lo sviluppo della riproduzione sessuata; la seconda, il processo di fotosintesi delle piante primordiali, che rese l’atmosfera respirabile per le specie animali successive, e in primis per la razza umana. Se in uno di questi momenti critici l’evoluzione biologica avesse preso un altro percorso, non saremmo qui a parlarne. Un problema che angustia molto i filosofi e gli scienziati di impostazione più teorica, tanto che alcuni hanno pensato di risolvere il problema introducendo un’elegante soluzione: il principio antropico.
Siamo frutto del caso… o di un errore?
Secondo il principio antropico, le cose stanno così perché esistiamo. Detta altrimenti, il fatto che la nostra esistenza ci sembri davvero una “fortuna cosmica” (per usare una definizione del cosmologo Paul Davies), il risultato di una vincita alla lotteria, si risolve considerando che se le cose fossero andate diversamente non saremmo qui a parlarne. È esattamente il ragionamento che potrebbe fare il vincitore di un jackpot stellare al Superenalotto, che sfidando tutte le probabilità a suo sfavore riesce a portare a casa l’intero montepremi. Improvvisamente ricco, il nostro fortunato vincitore potrebbe essere portato a chiedersi se l’incredibile fortuna che lo ha baciato non sia il frutto di una volontà divina. Noi esseri umani facciamo lo stesso. Qualsiasi cosa, nel corso di tredici miliardi di anni di evoluzione dell’universo, sarebbe potuta andare male. Eppure, eccoci qui.
Quello che ne deriva è una mutazione: spesso insignificante, a volte alla base di esiti drammatici (malattie genetiche e tumori), in alcuni rari casi una vera e propria fortuna. Un essere umano portatore di una mutazione “benigna” può adattarsi meglio all’ambiente in determinati casi. Per esempio, per un banale errore di trascrizione del DNA, molto tempo fa, qualcuno sull’Himalaya si trovò in grado di sopportare meglio le condizioni proibitive di quell’ambiente. Oggi, i suoi discendenti dominano il “tetto del mondo”, dove l’ossigeno è molto più scarso.
I punti oscuri che la scienza deve chiarire
Allora, abbiamo capito tutto? Non proprio. Boncinelli ci ricorda che oltre il 70% del DNA è ancora sconosciuto. Sì, conosciamo perfettamente l’enorme patrimonio di geni che lo compongono da quando, circa dieci anni fa, è stata completata la mappatura del genoma umano. Ma i geni non sono tutto: esistono meccanismi ancora più nascosti, tra i cui anfratti si annida il segreto della vita. Questo DNA “oscuro” fa il paio con la “materia oscura” che, insieme al’energia oscura, domina il 90% del nostro universo, e sulla cui natura l’astrofisica contemporanea non è ancora in grado di esprimersi. E qui può entrare in scena Lawrence Krauss. Il suo A Universe from Nothing – al momento disponibile solo in lingua originale, in attesa di una traduzione che non mancherà (Krauss è un autore che vende molto anche in Italia) – affronta invece il problema dal lato della cosmologia. Qui la questionepr non è tanto capire come è nato e si è evoluto l’essere umano, ma come è nato l’universo stesso. Non proprio chiacchiere da bar, soprattutto perché la risposta che oggi i cosmologi sono in grado di fornire all’annosa questione del “da dove veniamo?” è abbastanza spiazzante: dal nulla.
«La visione (ma non so se posso usare questa parola) che ci viene suggerita dalla cosmologia contemporanea» – commenta Roberto Battiston, eminente astrofisico italiano che ha recensito il libro di Krauss sul suo blog – «porta alle sue estreme conseguenze un percorso che ci ha portato dall’essere al centro dell’universo, a satelliti di una stella in una grande galassia, a parte infinitesima di una galassia qualsiasi, ad essere fatti di una materia residuale rispetto a quella, oscura, che domina l’universo… Ora perfino l’universo viene derivato da una inevitabile ‘fluttuazione a energia zero del nulla’ ed il nulla di cui parliamo è tale che nemmeno le leggi della fisica o le proprietà dello spazio tempo sono preesistenti, ma vengono casualmente definite ogni volta che questo processo di fluttuazione accade».
Figli del nulla
Ci sono in effetti due modi per definire il “nulla”. Esiste un nulla relativo, il cosiddetto “vuoto quantistico”, che in realtà è un oceano ribollente di particelle virtuali, che cioè compaiono e scompaiono nell’arco di un impercettibile istante, annichilendosi a vicenda. Un altro nulla è quello assoluto dal quale sarebbe emerso il nostro universo. «Il risultato delle osservazioni cosmologiche suggerisce che la geometria dello spazio-tempo nell’universo sia mediamente piatta, forte indizio del fatto che l’energia totale, vale a dire la somma dell’energia positiva della materia e dell’energia potenziale negativa dovuta all’onnipresente gravità, sia eguale a zero”, spiega ancora Battiston. «Tornando indietro fino al big bang, si può così pensare che l’universo derivi spontaneamente dal nulla: non dal vuoto quantistico, proprio dal nulla, condizione fisica che per definizione ha energia pari a zero». Insomma, «tutto avrebbe quindi avuto origine con un immenso fuoco d’artificio realizzato però senza un singolo grano di polvere da sparo».
C’è un problema, però. Come spiega Stephen Hawking nel suo ultimo libro Il grande disegno, e come vogliono i teorici del multiverso, se è possibile far emergere un universo spontaneamente dal nulla è possibile ripetere quest’operazione un’infinità di volte. L’idea che esistano infiniti universi è cara alla fantascienza, ma non soddisfa il principio del rasoio di Occam, che predilige le teorie semplici, e non quelle che richiedono un’eccessiva moltiplicazione di “enti inutili”. È vero anche che la tesi del multiverso risolverebbe in parte le nostre ansie antropocentriche riguardo l’incredibile fortuna cosmica che ci ha permesso di essere qui: avendo a disposizione un numero infinito di combinazioni, è inevitabile che in uno di questi universi si siano create le condizioni che hanno reso possibile lo sviluppo di specie intelligenti e civiltà tecnologiche, come amiamo definirci.
Esistono altre spiegazioni? Certo, c’è sempre l’ipotesi che Laplace aveva deciso di non prendere in considerazione, divertendo Napoleone, che su Dio aveva sempre avuto un atteggiamento ondivago. Ma potrebbero anche esserci altre possibilità. Secondo Roberto Battiston, «l’unico modo per confrontarsi con una idea è quello di proporre una idea più potente». Non ci resta, allora, che attenderne di nuove.