La “riproduzione eterologa” lontana dall’adulterio e dal tradimento genetico
Ricorrereste alle tecniche riproduttive? E direste a vostro figlio com’è stato concepito? Dalla nascita di Louise Brown sono milioni i bambini nati grazie alla medicina riproduttiva e domande che prima appartenevano alla fantascienza sono diventate sempre più familiari: come spiegare a un bambino che è stato prodotto in un laboratorio? In Italia la legge 40 nel 2004 ha vietato alcune tecniche e ha ristretto in modo arbitrario l’accesso escludendo a priori molte persone (single, coppie dello stesso sesso, persone affette da alcune patologie), alle quali rimangono due alternative: rinunciare oppure andare all’estero, ingrossando quel fenomeno malamente chiamato “turismo procreativo” – che di turistico non ha nulla e che si radica nell’esclusione e nella limitazione giuridica. Dopo numerose sentenze alcuni degli articoli più controversi sono stati eliminati, come l’obbligo di impianto contemporaneo dei 3 embrioni prodotti e il divieto di crioconservazione.
Tra i divieti che rimangono ancora in piedi c’è quello di “procreazione eterologa”. L’articolo 4 stabilisce infatti: “È vietato il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo”. La bizzarra espressione indigena denota il ricorso a un gamete femminile o maschile utilizzato per produrre e poi impiantare un embrione. Si può averne bisogno in caso di sterilità, di patologie trasmissibili oppure quando è una donna (o una coppia di donne) ad accedere alle tecniche riproduttive. La legge 40 però ha vietato questa possibilità offerta dalla medicina riproduttiva affidandosi a pregiudizi e a motivazioni incomprensibili.
In molti altri Paesi la tecnica è permessa e il dibattito non è rimasto impantanato in pretestuose analogie come l’ombra del terzo, l’adulterio o il tradimento genetico, magari andando con il lattaio – analogie fallimentari soprattutto perché in nessuno di questi casi esiste un divieto normativo. Si può condannare moralmente l’adulterio o si può essere convinti riduzionisti, ma non per questo sarebbe legittimo considerare un reato tradire il proprio coniuge o vietare le parentele in assenza di legami genetici. Il dibattito, dicevo, riguarda per esempio le implicazioni del ricorso a un gamete: morali, relazionali, giuridiche. Abbiamo il dovere di raccontare come abbiamo concepito nostro figlio? A che età e in che modo è più corretto farlo? E come spieghiamo a un bambino le tecniche riproduttive considerando che è già abbastanza complicato spiegargli la riproduzione sessuale?
Proprio ieri il “Nuffield Council on Bioethics” ha pubblicato un report sui bambini nati dalla donazione di un gamete, Donor conception: ethical aspects of information sharing. Fin dalle prime righe del comunicato stampa si legge che sono i genitori a dover decidere se e come raccontare ai propri figli il modo in cui sono stati concepiti, e che sarebbe sensato prevedere un supporto per tutte le parti coinvolte: bambini, genitori, donatori. In passato si tendeva a suggerire di non dire – e il consiglio sembrerebbe in linea con la vergogna di avere avuto bisogno di ricorrere a una tecnica riproduttiva, in Italia ancora molto diffusa e verosimilmente alimentata dal divieto. Oggi la tendenza è cambiata (e anche la legge inglese al riguardo), e si tende a incoraggiare i genitori a raccontare.
Qual è la ragione principale per decidere di condividere simili informazioni? Nella sezione che riguarda gli aspetti morali il NCB suggerisce che non ci sia una ragione intrinseca, cioè che l’apertura e la condivisione di informazioni rispetto alla donazione non costituiscano un valore di per sé, ma che possano essere benefiche in termini relazionali. A questa conclusione ci arriva considerando tutti i possibili interessi: l’importanza clinica di conoscere le persone cui siamo legati biologicamente, la curiosità di sapere le ragioni della donazione o di indagare eventuali somiglianze, la riservatezza, l’importanza di crescere i propri figli senza che nessuno interferisca, l’eventuale effetto benefico di non tacere o non inventare origini bizzarre.
Parlare di interessi e non subito di diritti è una scelta precisa da parte del NCB: prima cerchiamo di ragionare su cosa sappiamo riguardo a questi interessi, e poi ci domandiamo se e come dovrebbero essere protetti e garantiti in senso forte (come diritti, appunto, e non meramente interessi: se abbiamo un indubitabile interesse di vincere una gara, per esempio, non potremmo pretendere di avere il diritto di salire sul podio). È evidente che non sia facile trovare l’equilibrio di tutte i soggetti coinvolti, anche per la natura stessa di queste informazioni: private e condivise allo stesso tempo, problema che ci troviamo davanti ogni volta che discutiamo di dati genetici. Né è possibile compilare una gerarchia di aventi diritto: si parte alla pari e si dovrebbe anche tener conto dei desideri delle singole persone. Non per tutti è rilevante conoscere il donatore o sapere se ci sono fratellastri genetici in giro per il mondo.
Lo sforzo dovrebbe coinvolgere anche gli operatori sanitari: non solo sugli aspetti strettamente medici, ma più in generale sulle possibili questioni attinenti all’utilizzo di questa tecnica riproduttiva. C’è un passaggio che è particolarmente interessante per noi che abbiamo quel ridicolo divieto: non esiste alcuna evidenza che i nati dalla donazione di un gamete possano essere danneggiati dal non esserne poi informati. Pensare che ai genitori della legge 40 è bastato molto meno per vietare proprio il ricorso a questa tecnica, forse per togliersi anche il disturbo di discutere sui se e sui come.