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Covid 19

“La movida rischia di azzerare i sacrifici del lockdown”: la virologa Gismondo a Fanpage.it

Maria Rita Gismondo, Direttrice della struttura di Microbiologia Clinica, Virologia e Bioemergenze dell’ospedale Sacco di Milano: “Molti giovani hanno interpretato la libertà di uscire come un “torniamo alla vita di prima” ma non è così. Siamo ancora in una fase di circolazione del virus importante, per cui anche per i giovani possono infettarsi e, soprattutto, diffondere l’infezione”.
Intervista al Prof.ssa Maria Rita Gismondo
Virologa, Direttrice della struttura di Microbiologia Clinica, Virologia e Bioemergenze dell’ospedale Sacco di Milano
A cura di Valeria Aiello
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I numeri ci dicono che le misure di lockdown adottate in Italia hanno determinato un andamento discendente della curva del contagio, così come delle ospedalizzazioni, dei ricoveri in terapia intensiva e dei decessi per coronavirus. In Paesi dove invece il lockdown non è stato come quello italiano, come ad esempio in Svezia, sebbene sia stato suggerito di limitare la mobilità e le interazioni sociali e i cittadini abbiano rispettato queste raccomandazioni, il numero di decessi giornalieri per milione di abitante sta scendendo molto più lentamente che in Italia. È notizia di questi giorni che la stessa Svezia è il Paese al mondo con il più alto numero di morti per coronavirus per milione di abitante e che, nel confronto con le altre nazioni scandinave, come Norvegia, Danimarca e Finlandia, questo dato è 5-10 volte più alto. Una situazione che può far intendere come misure meno severe producano un danno notevole in termini di vite umane e, d’altra parte, fa riflettere sull’approccio con cui in Italia è partita questa seconda fase 2 dell’emergenza coronavirus. Del resto, foto e video circolati sui social appena concluso parlano chiaro.

Nel weekend appena concluso, la movida è di fatto ripresa nella stragrande maggioranza dei luoghi di ritrovo, spesso con persone che non indossano alcuna mascherina o che la usano come se fosse un accessorio, e di solito senza il rispetto di alcuna distanza sociale. Dopo 70 giorni di lockdown, c’era probabilmente da aspettarselo, ma qual è il rischio che si prospetta? Lo abbiamo chiesto alla prof.ssa Maria Rita Gismondo, Direttrice della struttura di Microbiologia Clinica, Virologia e Bioemergenze dell’ospedale Sacco di Milano.

Dunque professoressa, qual è oggi il rischio della movida?
Il rischio è assolutamente quello di azzerare il grande sacrificio fatto finora e che ci ha portato a un rallentamento della diffusione del virus. Con il lockdown abbiamo avuto un abbassamento dei contagi e, di conseguenza dei ricoveri, soprattutto in terapia intensiva, anche se va detto che il calo delle persone in terapia intensiva è dovuto anche al fatto che con l’esperienza è migliorato l’approccio terapeutico. Quindi, da un lato è dovuto a una migliore gestione del paziente, dall’altro alla diminuzione dei contagi.

La virologa Maria Rita Gismondo
La virologa Maria Rita Gismondo

Adesso assistiamo alla movida, ma ci sono anche adulti che non hanno una piena adesione a quelle che sono le norme. Vediamo tanta gente per strada con, ad esempio, la mascherina sotto il mento, quasi a dire “se la devo portare, allora la porto come voglio io”. E questo è molto sbagliato. Ma certo, quello che dà più all’occhio e che ci fa preoccupare è la movida.

Capiamo che i ragazzi hanno più bisogno della socialità e che, rispetto agli adulti che possono in qualche modo sopportare meglio la mancanza di socialità, hanno magari sofferto di più il dover restare forzatamente a casa per due mesi. In molti hanno però interpretato la libertà di uscire come un “torniamo alla vita di prima”. Non è così, perché il virus circola ancora tra di noi. E se, da una parte, sono stati i meno toccati dal virus, nel senso che tra i giovani ci sono stati meno ricoveri, ingressi in terapia intensiva e decessi, dall’altra possono comunque essere infettati, avere dei sintomi blandi o addirittura non averli e, soprattutto, la cosa grave è che possono passare il virus ad altre persone che magari sono più avanti con l’età, come ai genitori e ai nonni, quindi agli anziani in generale e ai malati cronici.

A loro affidiamo dunque un senso di grande responsabilità che purtroppo, in queste serate, dalle immagini delle varie zone della movida, non solo in Italia, ma anche in Spagna come in Francia, devo dire non si è visto. Evidentemente i giovani fanno fatica ad entrare in quest’ottica di convivenza con il virus ma è qualcosa che devono capire.

I numeri ci dicono che senza un lockdown severo, per quanto si possa essere rispettosi delle regole, come ad esempio in Svezia, il virus continua a circolare…

Sì, certamente, perché comunque il virus c’è e circola. Non possiamo però fare un paragone con la Svezia come se lì non ci sia stato il lockdown. Hanno adottato un modello diverso, con restrizioni che non sono state imposte dal Governo, ma che sono state adottate in maniera assolutamente autonoma e volontaria dalle persone. Non c’è stato un lockdown legislativo, con emanazione di decreti e provvedimenti, ma in pratica c’è stato ugualmente, perché la gente ha recepito e adottato una serie di misure.

Comunque sia, siamo ancora in una fase di circolazione del virus importante, per cui è difficile che l’infezione non si diffonda. Le misure servono a far sì che questa diffusione sia il più contenuta possibile, non si può passare al contagio zero in così poco tempo.

Un campanello d’allarme sulla circolazione del virus può essere dato dai test sierologici?

Quando parliamo di test sierologici, dobbiamo innanzitutto capire prima di quali si sta parlando. Non tutti i test hanno la stessa qualità – ne sono circolati e ne stanno circolando anche di bassa qualità – e anche quelli che sono accreditati, cioè approvati, non danno tutti le stesse risposte. Ci sono quindi test qualitativi ma anche test quantitativi che invece danno un’immagine un po’ più nitida della situazione.

Al di là di questo, anche se qualitativi, questi test ci dicono se sono presenti anticorpi oppure no. Reputo più validi quelli che danno una risposta sia per le IgM sia per le IgG perché così abbiamo due possibilità di conoscenza. In presenza delle IgM siamo sicuramente in una fase infettiva; se invece ci sono le IgG, questa fase infettiva è superata, non sappiamo da quanto tempo, oppure siamo nella coda della fase infettiva ma, sicuramente, in una fase di superamento dell’infezione. Si capisce, dunque, che se andiamo a guardare solamente le IgG, non riusciamo a vedere se siamo infetti in quel momento, perché queste immunoglobuline si sviluppano 15-20 giorni dopo la manifestazione dei sintomi.

Personalmente sono quindi contraria ai test che danno solamente risultati sulle IgG perché, nel momento in cui si effettua un test sierologico, deve esserci una risposta sia sulle IgM sia sulle IgG, in modo da sapere con alta probabilità se abbiamo un’infezione oppure l’abbiamo già avuta. Comunque, in caso di positività, bisogna sempre fare il tampone perché, seppure con degli scarti di sensibilità – dal momento che non è al 100% sensibile ma non è neanche al 100% specifico – , in questo momento è sicuramente il nostro unico mezzo diagnostico provato e consolidato.

Non crede che aspettare che aumenti il numero di contagi sia una strategia attendista?

Le faccio una domanda al contrario. Come facciamo a valutare se, con la riapertura, le persone adotteranno o meno misure ottimali per non sprecare il lockdown? L’unica risposta che abbiamo è, dopo una quindicina di giorni, vedere i risultati. Cosa si potrebbe fare prima? Mettere tutti in lockdown comunque? E allora, a cosa è servito allentarlo? Così non ne usciremo mai, cioè non andremo mai verso una vita normale.

Noi dobbiamo sperare che dopo il lockdown la gente osservi le pratiche indicate di contenimento dell’infezione. Dopodiché vedremo se queste misure hanno funzionato e, se avranno funzionato, andremo avanti, allentando ancora, altrimenti dovremo tornare indietro. Non è attendistico, il virus ci dà questi risultati in questi tempi.

Le informazioni fornite su www.fanpage.it sono progettate per integrare, non sostituire, la relazione tra un paziente e il proprio medico.
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