La cura Covid-19 con il plasma ferma negli ospedali: “Rischiamo di sprecare un’occasione”
ll protocollo di studio per il trattamento dei pazienti Covid-19 con il plasma iperimmune fatica a decollare. Dallo scorso 15 maggio, cioè da quando la sperimentazione nazionale denominata Tsunami è stata autorizzata, sono stati arruolati appena 50 pazienti in soli 8 centri finora attivi in Italia. Una situazione alimentata “da ritardi burocratici e amministrativi e da procedure di attivazione diverse per ogni singola azienda ospedaliera” dice a Fanpage.it il professor Francesco Menichetti, Direttore dell’Unità di Malattie Infettive dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Pisa e investigatore principale per la cura con il plasma iperimmune – . Un iter complesso, che comprende la firma di un contratto con l’Istituto Superiore di Sanità, una procedura che si dimostra lunga e complessa per le aziende che richiedono l’attivazione di un centro”.
Perché tutte queste difficoltà nell’arruolamento dei pazienti al protocollo Tsunami ?
I motivi sono molteplici: i diversi interessi scientifici dei gruppi di ricerca, la cronica disabitudine alla collaborazione, la mancanza di una efficace regia centrale. Nel caso del progetto Tsunami, la sperimentazione è stata fortemente voluta dal Ministero della Salute che ha sollecitato AIFA ed ISS in questo senso, poi sono intervenuti diversi fattori ostativi, l’oggettivo calo dei ricoveri per COVID, il periodo estivo, i ritardi amministrativi, il disinteresse da parte di qualche ricercatore.
Qual è la situazione dopo cinque mesi?
Dall’autorizzazione del Comitato Etico dello scorso maggio, siamo ripartiti dal 15 luglio con estrema lentezza. Su oltre 70 centri che hanno aderito alla sperimentazione, attualmente sono stati attivati 16, di cui soltanto la metà sta arruolando i pazienti, la maggior parte in Toscana, anche se qualche caso è stato arruolato al Niguarda di Milano ed in Umbria. Complessivamente, ad oggi sono stati arruolati circa 50 pazienti, di cui 20 nel nostro centro di Pisa. Si tratta dunque di numeri ancora lontani dai 476 pazienti previsti dalla sperimentazione e dai 250 che ci permetterebbero una prima analisi preliminare. È necessario un impegno maggiore, con la rapida attivazione di altri centri realmente interessati alla sperimentazione. Questo ci consentirebbe di procedere velocemente ed acquisire le evidenze scientifiche di cui abbiamo assoluta necessità.
Quali sono i dubbi sul plasma dei guariti nei pazienti Covid?
Non sappiano ancora se si tratta di una terapia sicura ed efficace. Gli studi internazionali randomizzati e controllati finora pubblicati non hanno dato conferme in questo senso, ma non hanno neanche affermato il contrario. Parliamo certamente di una terapia complessa, perché il plasma è un derivato del sangue che, oltre agli anticorpi del donatore, contiene albumina e fattori della coagulazione. In generale, possiamo dire che la terapia si è mostrata sufficientemente sicura e ben tollerata ma manca ancora una chiara dimostrazione del suo benefico nel Covid-19.
Risultati iniziali incoraggianti sono stati visti nei centri di Mantova e Pavia, che hanno iniziato per primi a curare con il plasma dei guariti i pazienti con forme gravi di Covid-19, sebbene si sia trattato di uno studio osservazionale. Uno studio come Tsunami, randomizzato e prospettico, condotto cioè su pazienti con Covid-19 lieve o moderato, arruolati casualmente a ricevere o il plasma dei guariti in fase precoce (o la terapia standard senza plasma) può invece generare evidenze scientifiche forti.
Quanto tempo servirà perché la sperimentazione vada a regime?
Dipenderà da quanti saranno i centri attivi e dall’impegno dei ricercatori. Penso a Pavia e Mantova, che in qualche modo sono stati i centri iniziatori e che adesso spero possano iniziare a dare il loro contributo, così come lo Spallanzani di Roma ed i centri dell’Emilia-Romagna, della Liguria, della Campania (solo per citare quelli di nuovo interessati dall’epidemia). Dopo il calo dei contagi in estate, la pandemia è ripartita, con la ripresa dei ricoveri in ospedale. Una situazione in cui, con volontà e determinazione, la sperimentazione potrebbe essere quindi essere portata avanti velocemente.
Occorre fare di tutto per non sprecare un’occasione scientifica importante, che per la ricerca italiana potrebbe significare un nuovo inizio, sul modello britannico della piattaforma Recovery. In altri Paesi come il Regno Unito, dove l’epidemia non è stata gestita bene dal punto del visto del contagio, è stato messo in campo un network di ricercatori che ha arruolato migliaia di pazienti su vari filoni di sperimentazione, portando a risultati importanti dal punto di vista della ricerca, come sull’uso del desametasone e dell’idrossiclorochina. In Italia, dove abbiamo delle buone idee e la qualità dei professionisti, non riusciamo invece a produrre risultati all’altezza”.