In Sudafrica il coronavirus non attecchisce: perché così pochi casi e una curva dei contagi piatta?
Una controtendenza che fa riflettere quella che si sta osservando in Sudafrica dove, alla terza settimana di lockdown che verrà esteso probabilmente fino ad almeno la fine di aprile, la diffusione dell’infezione da nuovo coronavirus non segue le curve degli altri Paesi. Gli esperti di modelli di previsione per la gestione dell’epidemia si attendevano che, nonostante le misure di restrizione, il numero dei casi totali salisse a quota 4mila contagi entro il 2 aprile, ma dopo il blocco, l’aumento giornaliero dei casi ha bruscamente rallentato e il numero di nuovi casi è rimasto più o meno costante, con circa 70 positivi ogni giorno. Ad oggi in Sudafrica sono 2.506 i casi confermati e 34 i decessi, con un’incidenza di 42 casi per milione di abitanti.
In Sudafrica il coronavirus non attecchisce
Il Sudafrica ha registrato il suo primo caso di coronavirus lo scorso 5 marzo e, nelle prime settimane, l’epidemia ha seguito un andamento esponenziale simile a quello di molti altri Paesi europei. Il 15 marzo il Presidente del Sudafrica, Cyril Ramaphosa, ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale, vietando l’ingresso ai turisti provenienti da Paesi ritenuti ad alto rischio, fermando i grandi raduni, chiudendo le scuole e più della metà dei suoi confini terrestri. Il 27 marzo ha poi avviato un lockdown di 21 giorni, chiudendo tutti i confini e limitando gli spostamenti delle persone ad eccezione di quelli per particolari esigenze, come per l’acquisto di generi alimentari e medicine oppure per riscuotere i sussidi sociali.
Perché ci sono così pochi casi?
In molti si sono chiesti se il rallentamento dei contagi sia dovuto al basso numero di test in considerazione dell’ipotesi che l’epidemia stesse colpendo le aree più povere del Paese. Tuttavia, l’epidemiologo sudafricano Abdool Karim, che presiede il Comitato consultivo Covid-19 del Ministro della Salute Zweli Mkhize, ha dichiarato che il rallentamento di nuovi casi ha persino coinciso con un aumento del numero dei test nelle comunità più povere, affermando che è probabile che la chiusura dei confini, le misure di distanziamento sociale e il lockdown abbiano invece permesso di rallentare la diffusione del virus nel Paese. “Non possiamo dirlo con certezza – le sue parole nel debriefing tv di lunedì sera – ma possiamo dire che è probabile che abbiano funzionato”. L’epidemiologo ha anche spiegato che gli esperti dell’organo consultivo hanno fornito “una visione scientifica dietro al processo decisionale”.
Il Sudafrica non abbassa la guardia
Nonostante l’appiattimento della curva dei contagi, gli scienziati non abbassano la guardia. Secondo il professor Karim “è molto, molto improbabile” che il Paese potrà evitare un’ondata futura di casi. Nel frattempo, le settimane di lockdown hanno aiutato le autorità a decidere la strada da seguire. “Il blocco ci ha dato del tempo per diventare più proattivi”.
Il Sudafrica sta infatti sfruttando questo tempo per prepararsi a fronteggiare un’eventuale emergenza, inviando decine di migliaia di operatori sanitari nei villaggi per sottoporre screening le persone ed effettuare tamponi a quelle con sintomi di Covid-19. Identificando i focolai di infezione e isolando i positivi, il Paese spera di evitare che i piccoli focolai divampino in incendi su larga scala. Nel Paese si stanno inoltre costruendo ospedali da campo e ampliando la capacità di sepolture, ha detto Karim. In futuro, il Sudafrica prevede inoltre un programma randomizzato di screening in ospedali, scuole e aziende per valutare ulteriormente la diffusione del virus nella popolazione.
Solo quando il numero di nuovi casi diminuirà da una settimana all’altra, si rimuoverà il lockdown “in fasi che verranno attentamente valutate”. Si potrebbe partire sbloccando gli snodi di trasporto aereo a basso traffico e chiedendo ai soggetti più vulnerabili all’infezione, come gli anziani e coloro che hanno un sistema immunitario compromesso, di continuare a rimanere in casa, possibilmente fino a quando non ci saranno vaccini o farmaci anti-coronavirus. “Se di colpo terminassimo il blocco, rischieremo di annullare il vantaggio che abbiamo ottenuto” ha sottolineato Karim.
Il "modello" Sudafrica per i Paesi subsahariani
Anche molti altri Stati dell’Africa subsahariana stanno provando a chiudere i propri confini e decidere restrizioni per limitare gli spostamenti delle persone. “Per le proprie misure, questi Paesi prenderanno probabilmente spunto dal buon modello del Sudafrica oltre che dalle migliori esperienze di altre nazioni” ritiene Catherine Kyobutungi, Direttore esecutivo dell’Aphrc, il Centro di Ricerca sulla popolazione africana e la salute, un’organizzazione senza scopo di lucro con sede a Nairobi, in Kenya, in un’intervista Science Insider.
Al contrario, Wafaa El-Sadr, epidemiologa della Columbia University e direttrice del Centro internazionale per la cura e i programmi di trattamento dell’Aids (ICAP), ha affermato che la risposta “energica e basata sull'evidenza” del Sudafrica al coronavirus “contrasta nettamente” con l’iniziale risposta del Paese all’epidemia di Hiv alla fine degli Anni ‘90 che ha visto il Governo ostacolare l’implementazione del trattamento, negando la connessione tra Hiv e Aids. Per l’epidemiologa, il monitoraggio dell’infezione da nuovo coronavirus sarà necessario non per solo valutare la diffusione del virus ma anche per rilevare l’impatto delle misure di blocco sul benessere socio-economico, in particolare nelle aree più povere. “È questa la sfida che il Sudafrica e gli altri Paesi devono affrontare oggi”.