In cosa differiscono i test di efficacia dei vaccini Covid rispetto a quelli tradizionali
I vaccini contro Covid-19 rappresentano la principale speranza per porre fine alla pandemia, un auspicio alimentato dagli annunci di efficacia che in questi giorni arrivano dalle case farmaceutiche come Pfizer e Moderna che sono più avanti nella sperimentazione clinica delle proprie formulazioni. Ma se da un lato è ormai quasi certo che non arriverà un solo vaccino ma più vaccini, dall’altro è evidente che quelli che verranno autorizzati non funzioneranno alla stessa maniera. O meglio, non avranno gli stessi profili di efficacia, immunogenicità e sicurezza. Questo ovviamente perché i composti sono diversi tra loro per piattaforma di sviluppo e tecnologia ma soprattutto perché nel corso della sperimentazione clinica i criteri per definire l’efficacia si distinguono a seconda degli effetti che vengono valutati.
In altre parole, i diversi studi clinici randomizzati e controllati con placebo differiscono per i cosiddetti endpoint di efficacia, vale a dire gli obiettivi da raggiungere per la misura degli esiti: per quanto riguarda i vaccini in generale, questi possono ad esempio includere la riduzione del tasso di infezione (cioè la valutazione dell’immunità neutralizzante), la riduzione della gravità della malattia o la riduzione della durata dell’infettività. Il loro raggiungimento rappresenta il migliore scenario di efficacia, fornendo i dati necessari per richiedere le opportune autorizzazioni alle agenzie regolazione. Per i vaccini tradizionali, come ad esempio quelli contro morbillo e rosolia, esistono ormai da tempo evidenze scientifiche che indicano i diversi profili di efficacia, con protezione contro la malattia rispettivamente del 97% nel caso del morbillo e del 98% contro la rosolia.
Diverso, invece, il caso dell’infezione da nuovo coronavirus Sars-Cov-2. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha raccomandato che i vaccini anti-Covid debbano fornire una “chiara dimostrazione di efficacia idealmente con una stima puntuale di circa il 50%” e che tale efficacia venga valutata rispetto ai seguenti endpoint: riduzione della malattia, malattia grave e/o della diffusione/trasmissione. In altre parole, considerando l’emergenza globale e che Sars-Cov-2 è un nuovo patogeno contro cui al momento non esistono farmaci specifici contro l’infezione, l’Oms ha fornito una definizione aspecifica di efficacia clinica, per cui un vaccino in grado di ridurre uno qualsiasi di questi endpoint è ritenuto possa contribuire al controllo della pandemia.
Nel caso di Sars-Cov-2, dunque, un vaccino efficace potrebbe ridurre la probabilità di infezione di un individuo, la gravità della malattia in un individuo oppure il grado di trasmissione all'interno di una popolazione. “L’endpoint di efficacia più importante – fa notare una recente pubblicata su The Lancet – è quello di protezione contro le forme di malattia grave e morte. Questo è però difficile da valutare negli studi clinici di fase 3 […] essendo necessaria un’attenta raccolta di dati per valutare i marker di malattia grave”.
In particolare, indica un altro rapporto pubblicato su BMJ, esperti “nessuno degli studi in corso è progettato per rilevare una riduzione degli esiti gravi, come i ricoveri ospedalieri, la necessità di terapia intensiva o morte”. Né, d’altra parte, nelle stesse sperimentazioni viene valutata la possibilità che le diverse formulazioni possano fermare la diffusione del virus. “È infatti possibile che un vaccino contro Sars-Cov-2 possa ridurre la gravità della malattia ma portare a una diffusione prolungata del virus, il che potrebbe avere importanti conseguenze per la salute pubblica – aggiungono gli studiosi nel report pubblicato su The Lancet – . Pertanto potrebbe essere importante per i ricercatori considerare non solo la durata della positività al virus ma se il virus identificato nella popolazione vaccinata in grado di replicarsi”.