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Il SETI riapre la stagione della caccia agli extraterrestri

Risolti temporaneamente i suoi problemi finanziari, il centro di ricerca privato americano nato con lo scopo di individuare possibili segnali intelligenti dallo spazio riprende il lavoro per stanare E.T.
A cura di Roberto Paura
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Non se la passa davvero bene, da un po’ di tempo, il SETI – acronimo di Search for ExtraTerrestrial Intelligence, ricerca di intelligenze extraterrestri. Da quando, nel 1993, il Congresso americano decise di chiudere i rubinetti lasciando il centro di ricerca a corto di fondi pubblici, le disponibilità finanziarie si sono decisamente ridotte, basandosi unicamente sulle donazioni private. Certo, tra i testimonial del SETI ci sono nomi illustri: da Jodie Foster, la bella e intelligente attrice protagonista del film Contact, in cui vestiva i panni di una scienziata del SETI,  a Paul Davies, eminente astrofisico, cosmologo e astrobiologo autore di diversi volumi sull’argomento. Ma soprattutto Paul Allen, il co-fondatore di Microsoft, vero e proprio mecenate delle nuove tecnologie (recentemente ha staccato un generoso assegno per Wikipedia), che alcuni anni fa finanziò di tasca propria la realizzazione dell’insieme di radiotelescopi che porta il suo nome, l’Allen Telescope Array. Una serie di antenne paraboliche che scandagliano l’universo captando fenomeni spaziali nella banda radio, dove potrebbero celarsi anche possibili segnali intelligenti di origine extraterrestre.

Un grande orecchio per origliare gli extraterrestri

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Proprio l’Allen Telescope Array (ATA), asso nella manica del SETI – che può usufruire delle sue antenne per ascoltare il cielo senza disturbare i radiotelescopi più grandi fin troppo occupati dalle ordinarie mansioni dell’astronomia -, soffre la crisi economica mondiale. Finora solo 42 radiotelescopi sono attivi, mentre per completare il progetto ne servirebbero almeno 300 in più. Ma i costi sono alti: Allen aveva contribuito generosamente al primo finanziamento, per un totale di 25 milioni di dollari. Ma ne servono altri 55 per realizzare l’ambizioso proposito dell’ATA, che mettendo insieme tante piccole parabole (nemmeno tanto piccole, ciascuna ha un diametro di sei metri) può raggiungere la capacità di scandaglio del più grande radiotelescopio unico oggi attivo, quello di Arecibo. Di soldi, però, ce ne sono pochi, tanto che lo scorso aprile i lavori all’ATA si sono fermati e il SETI è tornato a chiedere ai suoi sostenitori uno sforzo in più. Non solo: la crisi era stata tale da mettere in stand-by anche il quartier generale del progetto, il centro di Hat Creek, a Berkeley. Lo scorso dicembre, tuttavia, grazie a una generosa campagna di finanziamento che ha fruttato, solo attraverso il web, oltre 200mila dollari, il SETI ha potuto riaprire i battenti e riprendere la caccia a E.T.

Qualcuno potrebbe dire che sono soldi buttati. Anche per questo, il Congresso nel 1993 non riuscì più a giustificare ai contribuenti la spesa – peraltro modestissima – per il progetto voluto dalla NASA. Si sperava di trovare subito qualche segnale alieno, quando negli anni ’70, sulla base delle intuizioni di un italiano emigrato in America, Giuseppe Cocconi, e del collega Philip Morrison, la radioastronomia iniziò ad ascoltare il cosmo sperando di origliare le conversazioni tra gli abitanti delle stelle. Oggi, a circa quarant’anni dall’inizio di quell’avventura, l’interesse del grande pubblico è scemato, e pochi si ricordano ancora del SETI. Ma lì, in quegli uffici all’Università della California, nessuno dubita: dell’esistenza di civiltà extraterrestri sono convinti tutti, si tratta solo di aver pazienza e sperare in un po’ di fortuna. La galassia è vasta. Non solo: negli ultimi mesi, sulla scorta dei primi risultati del censimento dei pianeti extrasolari realizzato dall’osservatorio spaziale Kepler, gli astronomi si sono ormai convinti che i pianeti nella galassia devono essere tanti quanto e forse più delle stelle. Ma, sulla scorta dell’equazione di Drake, questo numero astronomico – non meno di cento miliardi – va significativamente ridotto: come ricorda Geoffrey Marcy, professore a Berkekley ed esperto del SETI, le civiltà tecnologiche potrebbero essere molto rare nel cosmo, “ma sicuramente sono lì fuori, perché il numero dei pianeti simili alla Terra nella Via Lattea è semplicemente troppo grande”.

In cerca del segnale "Wow!"

“ Sicuramente sono lì fuori, perché il numero dei pianeti simili alla Terra nella Via Lattea è semplicemente troppo grande. ”
Geoffrey Marcy
Sarà anche troppo grande, ma al momento di civiltà tecnologiche – dove intendiamo con “tecnologiche” civiltà capaci di inviare anche involontariamente segnali radio nello spazio, come facciamo noi – ne conosciamo solo una: la nostra. “In questo campo, il numero due è il numero più importante”, commenta perciò la direttrice del SETI Jill Tarter. “Noi stiamo appunto cercando il numero due”. Quello che, in gergo, si chiama “segnale Wow!”. Così uno dei ragazzi del SETI, un’afosa mattina dell’estate 1977, definì un segnale giunto la notte di Ferragosto al radiosservatorio Big Ear (“grande orecchio”) dell’Ohio. Si trattava chiaramente di qualcosa di strano: superava di almeno trenta volte il volume del rumore di fondo, sembrava ripetersi in maniera poco naturale ed era stato individuato nella banda di 1420 Khz, quella che Cocconi e Morrison avevano proposto potesse ospitare segnali intelligenti, trattandosi della frequenza d’emissione dell’idrogeno, l’elemento più comune dell’universo, sicuramente la cosa che più avrebbero in comune tutte le specie intelligenti del cosmo. Sembrava proprio il tipo di segnale che al SETI ci si aspettava. Il volontario che s’imbatté alcuni giorni dopo nella sequenza registrata segnò un solo, secco commento al lato del foglio: “Wow!”.

kepler

Ma il segnale tornò solo un’altra volta, poi il nulla. Big Ear passò sopra quella zona del cielo oltre cinquanta volte, successivamente, senza riuscire a intercettare di nuovo quella sequenza. Se si fosse trattato di un segnale intelligente, inviato magari attraverso un radiofaro, sarebbe stato captato di continuo. Invece, dal cielo giunse solo rumore di fondo. Da allora, “Wow!” resta il segnale più intrigante mai captato dai radiotelescopi del progetto SETI, e gli scienziati e i volontari del centro di ricerca usano quel soprannome per indicare l’auspicato segnale definitivo che rivelerà all’umanità l’esistenza di un’altra civiltà nell’universo. Tra gli instancabili scandagliatori del cielo c’è Bob Gray, una vita passata a cercare “Wow!” vagabondando tra i radiotelescopi di tutto il mondo, fin giù in Tasmania, dove le condizioni di osservazione sono notevolmente migliori che nell’emisfero boreale. Lì, tra l’ottobre 1998 e il marzo 1999, Grey e un collega australiano orientarono per alcune ore al giorno la parabola verso la parte del cielo dove era stato per la prima captato il segnale “Wow!”. Ma in risposta giunse solo il glaciale silenzio degli abissi siderali. Gray non si è perso d'animo e continua a cercare, come racconta nel suo libro The Elusive Wow, un vero e proprio manifesto a favore della ricerca del SETI.

Nuova vita per il SETI

seti@home

Lì, nel centro di Hat Creek, i membri del SETI Institute continuano a lavorare. La loro direttrice, Jill Tarter, entrata nel gruppo nel 1976 quand’era postdoc a Berkeley, non ha mai smesso di crederci. A lei si è ispirata Jodie Foster per il personaggio di Ellen Harroway in Contact, il film di Robert Zemeckis tratto dal romanzo di Carl Sagan, un altro di quelli che nel SETI ci ha sempre creduto. Ora è il momento di tornare a sperare. Un grande sostegno viene da Kepler, la sonda della NASA che in orbita intorno alla Terra sta individuando centinaia e centinaia di pianeti extrasolari, molti dei quali di dimensioni simili al nostro pianeta e quindi candidati a ospitare forme di vita. Qualche giorno fa si era sparsa su Internet la notizia che il SETI avesse captato segnali alieni da una delle stelle analizzate da Kepler; era una bufala, ma le prospettive sono positive. Una volta completato il censimento, le antenne dell’ATA potranno essere calibrate per scandagliare le frequenze radio provenienti dalle aree dove si trovano pianeti interessanti. Una ricerca più mirata, rispetto all’ago nel pagliaio che oggi si spera di trovare. Non solo: l’Air Force americana è pronta a siglare con il SETI un conveniente accordo. Fino a due milioni e mezzo di dollari all’anno per il centro di Hat Creek e per il completamento dell’ATA, in cambio della possibilità di usare i radiotelescopi per tracciare satelliti (tra cui anche quelli non americani…) e mappare la spazzatura spaziale, un problema sempre più impellente per l’industria aerospaziale e per la NASA.

Altrove, in tutto il mondo, migliaia di appassionati concedono una parte della potenza di calcolo dei loro personal computer per far girare SETI@Home, l’applicativo scaricabile da Internet tramite il quale il SETI elabora i dati ricevuti dai radiotelescopi. In questo modo è possibile, a costo zero, portare avanti un lavoro enorme. A Hat Creek, lo scorso dicembre, dopo quasi sei mesi, gli scienziati e i tecnici sono tornati al lavoro. Sono abituati a questi stop-and-go, così come sono abituati ad attendere. Sanno che se un giorno venisse scoperto davvero un segnale “Wow!”, la loro attesa sarebbe premiata. Intanto, continuano ad ascoltare il cielo.

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