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Covid 19

Il coronavirus sta “mordendo meno”? È scontro sulla carica virale

Casi in aumento in Italia ma è guerra aperta tra virologi sulla gravità dell’infezione. Bassetti: “Nove casi su dieci sono asintomatici”. Broccolo: “Constatazioni di fine luglio, ora i tamponi indicano alta carica virale”. Galli: “Segnale di nuove infezioni”.
A cura di Valeria Aiello
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Un dato è certo: la curva dell’epidemia di Covid-19 in Italia è tornata a salire con un costante trend di crescita in agosto e flessioni che si sono registrate nei giorni con minore numero di tamponi eseguiti. Secondo l’ultimo bollettino diffuso dall’Istituto Superiore di Sanità, sono 15.360 gli attualmente positivi nel nostro Paese, con un incremento di 642 casi in un solo giorno, il dato peggiore dal 23 maggio, anche se più della metà delle nuove infezioni è di rientro dall’estero.

Nove su dieci sono asintomatici

E proprio dalla parola “casi” parte l’analisi del virologo Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie Infettive dell’Ospedale San Martino di Genova (“Almeno il 90% – dice a Corriere della Serasono asintomatici. Il che significa che non sono malati”), fermo sostenitore della tesi secondo cui il virus è diventato meno aggressivo. “Nei mesi di marzo, aprile e maggio, nel nostro ospedale avevamo una mortalità dell’11% nei pazienti ricoverati. Ora è zero”.

Il virus sta "mordendo meno"?

Osservazioni certamente confortanti e potenzialmente sostenute anche dai risultati di un nuovo studio per adesso disponibile su MedrXiv in preprint, ossia non ancora validato scientificamente, ma che supporterrebbe l’ipotesi di una possibile “virulenza virale attenuata” per quanto riguarda la gravità clinica. “Non a caso il titolo è Evolving virulence – fa notare Bassetti – . Il virus sta ‘mordendo meno’? Sembrerebbe di sì”. La ricerca in questione valuta la distribuzione temporale delle complicazioni di Covid-19 su 166 operatori sanitari del Massachusetts (dove il picco epidemico si è registrato lo scorso 15 aprile) risultati positivi tra il 9 marzo e l’8 giugno 2020. “Abbiamo scoperto – si legge nelle conclusioni della ricerca – che le infezioni contratte più avanti nella pandemia avevano meno probabilità di andare incontro a complicazioni”.

Da 10mila particelle a un milione

Tuttavia, dai tamponi analizzati in Italia in questi ultimi giorni emergono risultati in controtendenza. Rispetto a fine luglio e i primi di agosto, quando la carica virale, cioè la quantità di materiale genetico del nuovo coronavirus, era inferiore alle 10mila particelle per millilitro di campione, attualmente si rileva un numero di copie decisamente maggiore. “Ora – ha detto all’Ansa il virologo Francesco Broccolo dell’Università Milano Bicocca e direttore del laboratorio Cerba di Milano – circa la metà dei tamponi rilevati nell’ultima settimana supera il milione di copie di materiale genetico del virus, l’Rna, presenti nelle particelle viali infettive in un millilitro di tampone”. Un’osservazione che, secondo gli esperti, potrebbe indicare l’emergere di nuove infezioni, vale a dire che si tratti di contagi più recenti rispetto a quelli che venivano individuati tra la fine del mese scorso e l’inizio di quello in corso.

A supporto di questa ipotesi diversi studi scientifici convalidati che hanno indicato come la carica virale sia variabile nel tempo, e in particolare, hanno evidenziato la presenza di una più alta carica virale nel tratto respiratorio superiore nella prima settimana di infezione. Risultati che lo scorso giugno hanno portato anche a un aggiornamento della posizione dell’Organizzazione Mondiale di Sanità in merito ai tempi di dismissione dall’isolamento dei pazienti guariti sia all’interno sia all’esterno delle strutture sanitarie.

Segnale di nuove infezioni

La tesi che la presenza di una più alta carica virale nei tamponi più recenti sia una conseguenza del momento in cui avviene effettuato il test che vede d’accordo anche l’infettivologo Massimo Galli dell’Ospedale Sacco di Milano, una delle voci più ascoltate di questa pandemia. Già nelle settimane successive al lockdown, quando in Italia si osservava una diminuzione della carica virale e alcuni esperti attribuivano una minore aggressività del virus a una potenziale mutazione (ipotesi non confermata da studi scientifici che, al contrario, hanno indicato i ceppi in circolazione in Italia e nel mondo), il professor Galli aveva sottolineato più volte che si trattava di infezioni contratte tempo prima rispetto al momento in cui veniva effettuato il test.

Argomentazioni che trovano ora il supporto dai risultati emersi dai tamponi eseguiti nelle ultime settimane e, in particolare, dalla diversa strategia che l’Italia ha iniziato ad adottare per individuare i positivi, tra nuovi screening negli aeroporti e il ricorso più massivo al contact tracing. La presenza di una più alta carica virale “è purtroppo un fenomeno che nell’ultimo periodo si è verificato più volte e che è il segnale di nuove infezioni” dice Galli, tornato a ribadire che il dibattito sulla possibilità che alla fine del blocco il virus fosse “clinicamente morto” era probabilmente dovuto alla constatazione che “persone portatrici da tempo dell’infezione, se esaminate appunto dopo una lunga convivenza con il virus non avessero una grande replicazione virale. Questo, però – ha concluso – non accadeva perché il virus si fosse indebolito: tutto dipendeva da chi si andava a valutare”.

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