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Geo-ingegneria: ipotesi radicali contro il riscaldamento globale

La geo-ingegneria, scienza al momento solo teorica, avanza soluzioni nel caso in cui il problema del riscaldamento globale sfugga di mano: dalle nanoparticelle in atmosfera per riflettere il sole al’anidride carbonica seppellita sotto gli oceani.
A cura di Roberto Paura
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inquinamento

E se le cose dovessero iniziare ad andare davvero male, cosa faremo? Parliamo del riscaldamento globale e del problema sempre più impellente di trovare soluzioni al cambiamento climatico prodotto in tutto il mondo dalle emissioni di gas serra da parte dei paesi industrializzati. Se né il Protocollo di Kyoto, né il prossimo accordo che verrà firmato tra qualche anno né l’accordo europeo 20-20-20 (20% in meno di emissioni, 20% di risparmio energetico e 20% di energia prodotta da fonti rinnovabili) dovessero riuscire a risolvere davvero il problema, che soluzioni ci rimangono? Il clima, si sa, resta sempre un’incognita per gli scienziati. Il trend negativo potrebbe migliorare ma anche peggiorare rapidamente nel giro di pochi anni, mettendoci di fronte a problemi molto gravi, come l’innalzamento del livello dei mari. Se non possiamo abbandonare il pianeta, non ci resta che metterci una toppa.

Riflettere il Sole

In soccorso arrivano diverse idee da parte di équipe di scienziati che lavorano sulla geo-ingegneria, la possibilità cioè di intervenire in modo radicale per ridurre l’effetto-serra. Per capire la portata delle idee in gioco, basta immaginare la più importante: quella che prevede di immettere nell’alta atmosfera delle nanoparticelle capaci di riflettere in parte la luce solare riducendone l’impatto sulla Terra. Si tratta esattamente di una soluzione-tampone: è come se, trovandoci chiusi in una serra con il caldo che aumenta sempre più, decidessimo di coprire il soffitto con un telone per riflettere il sole. Il problema è in parte legato ai costi, in parte al rischio ambientale.

nuvole

Quella delle nanoparticelle riflettenti è un’idea più economica di un’altra proposta molto più fantascientifica che vorrebbe installare in orbita intorno alla Terra dei veri e propri specchi: certo in questo modo il potere riflettente sarebbe più facilmente regolabile a seconda delle esigenze e coprirebbe con facilità tutta la Terra, ma è il costo spropositato di realizzazione e messa in orbita degli specchi a rendere l’ipotesi assai poco percorribile. “Sparare” nanoparticelle è sicuramente più semplice, tanto che la Royal Society ha già finanziato preliminarmente un progetto su cui lavorano diverse équipe di università inglesi: si tratterebbe di sollevare fino a 20 km di quota una gigantesca mongolfiera collegata a terra da un piccolo tubo elastico ma molto resistente tramite il quale le particelle verrebbero portate su e quindi immesse in atmosfera.

Un anno senza estate

La storia ha già dimostrato che si tratta di una soluzione percorribile. Il 1816 è rimasto noto come “l’anno senza estate”: quell’anno le temperature medie furono particolarmente rigide e il freddo non abbandonò l’Europa nemmeno durante l’estate. Cosa era successo? Nell’aprile dell’anno precedente, mentre Napoleone fuggito dall’Elba recuperava per soli cento giorni il trono della Francia prima di essere sconfitto a Waterloo, nella lontana Indonesia eruttò il super-vulcano Tambora. Nessuno se ne rese conto in Occidente, ma le ceneri sparate nell’alta atmosfera andarono a sommarsi a quelle eruttate nel 1814 dal Mayon nelle Filippine e nel 1812 dal Soufière nei Caraibi. Di conseguenza, le polveri vulcaniche accumulatesi molto in alto andarono a oscurare per un paio di anni la luce del sole in misura sufficiente a ridurre la temperatura della Terra. Ci furono diverse carestie, che causarono decine di migliaia di morti. Negli anni della Guerra fredda, “l’anno senza estate” ammoniva l’umanità sui possibili effetti di una guerra nucleare su larga scala. Le bombe avrebbero ucciso centinaia di milioni di persone, ma il cosiddetto “inverno nucleare”, prodotto dalle polveri proiettate in atmosfera dalle immani esplosioni, avrebbe oscurato la luce solare per anni, provocando carestie tali da uccidere miliardi di persone.

specchi_solari

L’ipotesi geo-ingegneristica è naturalmente molto meno radicale, ma incontra diverse polemiche. Proprio perché la scienza del clima non è ancora una scienza “esatta”, non sono valutabili tutte le conseguenze di un simile intervento. E molta gente ha paura che queste particelle possano essere dannose per gli esseri umani. Naturalmente, questa ipotesi nasce dalle paure delle “scie chimiche”, che alcuni credono essere l’effetto di rilasci di gas dannosi per l’ambiente da parte dei governi per le più svariate ragioni (e che sono invece, in molti casi, semplici formazioni nuvolose e, in altri, scie di condensa degli aerei). Le nanonparticelle non sarebbero certo tossiche come le ceneri vulcaniche, ma del tutto naturali. Nell’ultimo numero di Science, una ricerca condotta dalle università di Manchester, Bristol e dai Sandia National Laboratories degli Stati Uniti svela quale potrebbe essere “l’arma” da impiegare: i biradicali di Criegee. Si tratta di particolari ossidanti che hanno la virtù di “attaccare” il biossido di azoto e il biossido di zolfo, tra le molecole più inquinanti prodotte dai processi di combustione industriali. I biradicali reagiscono rapidamente con queste molecole, pulendo l’atmosfera ma al tempo stesso accelerando la formazione di aerosol e di nubi in grado di raffreddare il pianeta. Insomma, due piccioni con una fava.

Nascondere il gas sotto il tappeto

Soluzioni meno radicali sono quelle che invece puntano a “catturare” l’anidride carbonica – tra i principali gas che producono il riscaldamento globale – dall’atmosfera, in alcuni casi andando addirittura a seppellirla in profondità, un po’ come una cameriera sciatta che, invece di buttar via la polvere spazzata, la nasconde sotto il tappeto. È l’ipotesi studiata, tra gli altri, dalle università di Harvard, della Columbia e del MIT negli Stati Uniti: secondo un rapporto pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences, il gas catturato con tecniche attualmente già in commercio potrebbe essere seppellito sui fondali oceanici, avendo cura di pomparlo sotto alcune centinaia di metri di sedimenti di modo che la bassa temperatura e la pressione ne garantiscano la liquefazione: l’anidride carbonica allo stato liquido risulta più densa dell’acqua marina e quindi tenderebbe a restare sul fondo oceanico e a non riemergere nemmeno nel caso di un grosso terremoto sottomarino che ne favorisca il rilascio. Di spazio ce n’è: secondo lo studio, l’intera produzione annua di CO2 degli Stati Uniti sarebbe comprimibile in 80 km2 di fondale.

Una foresta di alberi artificiali

alberi_artificiali

Se neanche questa soluzione vi piace, ne resta una praticamente a impatto zero sull’ambiente. Come si sa, gli alberi depurano il pianeta dall’anidride carbonica immettendo, in cambio, ossigeno. Avere più alberi e più foreste è già, di per sé, una buona soluzione: per questo è importante conservare i grandi polmoni verdi della Terra, tra cui soprattutto l’Amazzonia, e favorire il riforestamento di aree da lungo tempo disboscate dagli uomini come quelle in Europa. Ma, per accelerare il processo – gli alberi catturano tanto più CO2 quanto più sono grandi, e ci vuol tempo perché un albero cresca bene – si può pensare di installare alberi artificiali. Il progetto è già pronto: ci hanno lavorato scienziati e tecnici di università e aziende anglo-americane che dimostrano come un albero artificiale capace di catturare l’anidride carbonica sottraendola dall’atmosfera possa essere facilmente installato ovunque, ai lati delle strade o nei parchi pubblici, nel cortile di un palazzo o anche intorno alle grosse pale eoliche, se pensate – come molti – all’impatto paesaggistico. Questi alberi sono costituiti da pannelli di dimensioni variabili, da uno a dieci metri quadri, che attraverso una reazione chimica eliminano l’anidride carbonica che entra in contatto con i pannelli e, grazie all’interazione con l’idrossido di sodio, producono come scarto il carbonato di sodio (che se trattato può essere impiegato come additivo alimentare!).

Bisognerà certo lavorare sui costi. Al momento, nella migliore delle ipotesi si stima che il prezzo più basso per ciascun albero arrivi a 20mila dollari. Fatti i giusti conti, sostengono i tecnici, solo per togliere di mezzo la CO2 emessa dalle auto americane, che costituisce appena il 6% di tutte le emissioni negli USA – e quindi una percentuale del tutto trascurabile a livello mondiale – bisognerebbe spendere 48 miliardi di dollari in alberi artificiali. A questo punto, qualcuno potrebbe far notare che questi soldi potrebbero essere spesi meglio riducendo le emissioni inquinanti. E non avrebbe tutti i torti. La geo-ingegneria mostra che, se le cose si mettessero male, forse ci resterebbe ancora qualche carta da giocare. Ma la verità è che bisogna evitare di arrivare a questi rimedi estremi: dopo le recenti aperture della Cina al vertice di Durban, in Sudafrica, chiusosi con un generico impegno per lavorare su un futuro nuovo accordo che superi il Protocollo di Kyoto, anche gli Stati Uniti devono fare la loro parte, invece di lavorare solo su soluzioni fantascientifiche. L’Europa, dal canto suo, ha già fatto molto: anche grazie alla crisi economica, le emissioni inquinanti sono diminuite e i consumi energetici sono calati. Il nuovo accordo 20-20-20 punta, entro il 2020, aridurre non solo l’attuale tasso di emissioni del 20%, ma anche a lavorare su un’energia prodotta per almeno il 20% da fonti rinnovabili. La vera sfida contro cambiamento climatico e riscaldamento globale parte da qui.

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