Dalla Spagnola alla pandemia di Covid, perché la nuova frontiera della ricerca sui vaccini è l’RNA
Basi scientifiche che risalgono alla fine del 1700 e oltre 300 anni di storia che, a partire dalla prima era dei vaccini, hanno portato allo sviluppo di strategie in grado di fronteggiare, in tempi più o meno brevi, gravi epidemie. Sfide vinte, come quella contro il vaiolo, decretato ufficialmente eradicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1979, tre anni dopo l’identificazione in Somalia dell’ultimo caso, ma anche perse, come quella contro l’influenza Spagnola che 100 anni fa, a causa delle limitate conoscenze sui virus, venne erroneamente attribuita a un batterio, il bacillo Pfeiffer, portando allo sviluppo di vaccino risultato in pratica inefficacie. Ma soprattutto, sfide in corso, come quella di un vaccino contro l’HIV e contro patogeni emergenti come il coronavirus Sars-Cov-2, in un’evoluzione resa possibile grazie allo sforzo scientifico e alla progressiva disponibilità di nuove tecnologie che, nel contesto di una pandemia come quella che stiamo vivendo, si confermano essenziali nella corsa a un prodotto che possa riportarci alla normalità.
La nuova frontiera della ricerca sui vaccini
L’evidenzia deriva dal fatto che i due vaccini nello stato più avanzato di sperimentazione, quello sviluppato dalla casa farmaceutica Pfizer in collaborazione con BioNTech e quello messo a punto dalla società di biotecnologie Moderna insieme ai ricercatori dell’NIAID, si basano entrambi su una tecnica assolutamente innovativa e attraverso cui finora non è mai stato approvato alcun vaccino per uso umano. Un approccio reso possibile grazie a due recenti scoperte scientifiche senza le quali questa strategia non esisterebbe neppure.
La prima risale alla fine dell’ultimo decennio e si deve a Katalin Karikò, biochimica di origini ungheresi e attuale vicepresidente di BioNTech, e a Drew Weissman, immunologo dell’Università della Pennsylvania, che insieme hanno sviluppato un Rna messaggero modificato con un piccolo cambiamento chimico che lo rendeva più tollerabile al sistema immunitario. L’iniezione di questo RNA da solo non ha però sortito grandi effetti e, a partire dal 2015, Karikó, Weissman e il ricercatore Norbert Pardi hanno sviluppato un vaccino che proteggeva la sequenza di mRNA all’interno di nanoparticelle composte da lipidi, consentendogli di essere trasportato in modo più efficiente all’interno delle cellule.
Da allora, con questo metodo, sono stati sviluppati diversi vaccini a mRNA che, in modelli animali, sono riusciti a indurre una produzione abbondante di anticorpi contro l’influenza, l’Ebola, la Toxoplasmosi, il virus Zika e il nuovo coronavirus Sars-Cov-2. Risultati che, in quest’ultimo caso, sono confermati dalla sperimentazione clinica condotta negli ultimi mesi in decine di migliaia di volontari, arruolati in studi clinici randomizzati e controllati con placebo, oggigiorno considerati il “gold standard” per la valutazione di efficacia e sicurezza.
Al centro di queste formulazioni, la tecnologia dell’Rna messaggero, il materiale genetico che contiene le istruzioni per la sintesi delle proteine e che, diversamente da quanto normalmente accade nelle cellule (dove generalmente trasporta le informazioni genetiche presenti nel DNA del nucleo al citoplasma cellulare), contiene i geni che codificano per una forma stabilizzata della proteina Spike di Sars-Cov-2, la proteina che il virus utilizza per riconoscere il recettore Ace2 sulla superficie delle cellule e infettarle. Come detto, questo materiale genetico si trova racchiuso in una capsula di nanoparticelle lipidiche e, una volta somministrato, è in grado penetrare all’interno delle cellule, dove è utilizzato come stampo per riprodurre la proteina virale che, da sola, senza il resto del virus, è assolutamente innocua ma comunque in grado di indurre la produzione di anticorpi perché riconosciuta come “estranea” dal sistema immunitario.
Ciò implica che se una persona che ha ricevuto il vaccino incontrerà il coronavirus Sars-Cov-2, gli anticorpi riconosceranno la proteina Spike, neutralizzandola e bloccando così l’infezione o almeno riducendo la gravità della malattia. La novità risiede dunque nella piattaforma vaccinale, che rispetto alle più tradizionali, come quelle che sfruttano adenovirus che veicolano i geni del patogeno per indurre la risposta immunitaria (come il vaccino anti Covid sviluppato da Oxford/Astrazeneca), non necessita di un vettore virale preformato.
In altre parole, la tecnologia utilizzata per il vaccino di Pfizer/BioNtech e di Moderna fa sì che siano le cellule a produrre le proteine bersaglio, senza bisogno di vettori virali né di parti del virus, neppure inattivate o attenuate. Un approccio assolutamente inedito, introdotto con lo scopo di riuscire a produrre vaccini in breve tempo, dal momento che il processo produttivo risulta più semplice e più veloce, con il vantaggio di poter essere replicabile in diversi laboratori nonché versatile poiché permette di poter variare il materiale genetico qualora, ad esempio, nel tempo si verifichino eventuali mutazioni.