Così gli scienziati avevano previsto alcune delle mutazioni di Omicron
Tutti i virus mutano, continuamente. Alcuni molto più di altri, man mano che si diffondono nella popolazione. E poiché Sars-Cov-2 continua a replicarsi nell’uomo sotto la pressione selettiva dell’immunità naturale e indotta da vaccino, continuano a emergere varianti di preoccupazione (VOC) con maggiore trasmissibilità o virulenza. Quando la variante Omicron è stata scoperta per la prima volta in Sudafrica, nessuno sapeva quali mutazioni avesse acquisito, ma un team di ricerca della Harvard Medical School di Boston che aveva già previsto alcuni dei suoi cambiamenti prima che emergesse nel mondo reale.
In particolare, gli studiosi si sono concentrati sul sito di legame al recettore cellulare ACE2 della proteina Spike, chiamato RBD (Receptor Binding Domain), il dominio proteico che il virus utilizza per agganciare la cellula ospite e penetrare a suo interno. Mutazioni dell’RBD sono motivo di preoccupazione perché questo sito è bersaglio della maggior parte degli anticorpi indotti da una precedente infezione o dalla vaccinazione, pertanto possono conferire al virus la capacità di resistere alla difese immunitarie. Nel caso di Omicron che, ad oggi, è la variante di Sars-Cov-2 con più mutazioni, i cambiamenti a livello dell’RBD sono 15. In confronto, la variante Delta presenta soltanto due mutazioni sul suo RBD.
I risultati dei ricercatori, contenuti in un articolo pubblicato sulla rivista Science, suggeriscono “grande cautela con Omicron” ha avvertito l'autore senior dello studio Jonathan Abraham. “Questo virus è un mutaforma, e la grande flessibilità che avviamo visto nella proteina Spike di Sars-Cov-2 lascia intendere che Omicron non sarà probabilmente la fine della storia di questo virus”.
Tuttavia, anche i virus altamente mutati che sono stati analizzati nello studio (pseudovirus con sette mutazioni di fuga immunitaria) non sono stati in grado di sfuggire completamente agli anticorpi contenuti nel sangue di persone completamente vaccinate. Ecco perché, ha affermato il team, l’immunizzazione diffusa e ripetuta, anche con vaccini sviluppati contro il virus originale, potrebbe essere la chiave per contrastare l’emergere di nuove mutazioni.
Come sottolineato Abraham, più a lungo il virus è in grado di replicarsi negli esseri umani, più è probabile che evolva per sfuggire alle mutazioni, permettendo al patogeno di diffondersi anche in presenza di immunità naturale, vaccinazione o altri trattamenti. “Quindi – ha concluso Abraham – prima tutti si vaccinano e aiutano a ridurre la trasmissione del virus, tanto più facile sarà far fronte alla pandemia”.