“Contro Green Hill” libera centinaia di animali e vanifica anni di ricerca
Sabato scorso “Contro Green Hill” occupa lo stabulario del Dipartimento di Farmacologia, Chemioterapia e Tossicologia Medica dell’Università di Milano. L’appuntamento è per le due del pomeriggio, piazzale Duca D’Aosta, Milano. Il pretesto è l’imminente giornata mondiale degli animali nei laboratori (ieri 24 aprile). Nell’invito “Abbattere il muro di silenzio corteo nazionale contro la vivisezione” si ricorda l’occupazione di Green Hill del 2010, “Salviamo i cani da Green Hill”. Sull’uso della parola “vivisezione” tornerò dopo. Gli avvenimenti di sabato possono essere ricostruiti seguendo le informazioni e le foto pubblicate da “Contro Green Hill”.
La prima tappa è l’occupazione dello stabulario: “5 attivisti e attiviste del Coordinamento Fermare Green Hill sono chiusi dentro il quarto piano del Dipartimento di Farmacologia […] a Milano. Barricati in modo da resistere a lungo e pronti a rimanerci anche diversi giorni se necessario. Insieme a loro ci sono migliaia di animali già sottoposti ad esperimenti, chiusi nelle loro piccole gabbie, nella loro vita ridotta ad un numero”. Dopo un po’ gli attivisti srotolano uno striscione dalle finestre del dipartimento. Poi vengono pubblicate alcune foto dell’interno. Si vedono almeno due attivisti incatenati alle porte: uno con una kryptonite, l’altra con una catena vera e propria.
C’è anche un video e una didascalia: “Queste che vi mostriamo sono le prime immagini che documentano ciò che accade all’interno di una struttura, dove ogni giorno vengono torturati migliaia di animali. Gli attivisti e tutti gli individui prigionieri di questo lager hanno bisogno del tuo aiuto!”. Vogliono liberare tutti gli animali e non se ne andranno fin quando non l’avranno fatto. Scrivono che stanno portando avanti “una trattativa” ma sembra come quando ci dicono “va bene parliamo, ma i nostri valori non sono negoziabili”. La puntata finale è la liberazione: “gli attivisti e le attiviste sono usciti dopo 10 ore di occupazione dello stabulario di farmacologia di Milano.
Con loro centinaia di topi e 1 coniglio sono stati riscattati e portati al sicuro, lontano dalle mani dei vivisettori. Tutti gli altri animali presenti all’interno verranno rilasciati nei prossimi giorni, in accordo con la direttrice dell’università. I 5 attivisti sono stati identificati dalla polizia e hanno raggiunto tra le ovazioni la folla che in queste ore era sopraggiunta in supporto. Ringraziamo tutte le persone che hanno creduto in noi, un altro passo storico nella battaglia contro la Sperimentazione Animale è stato oggi compiuto!”. Tra gli animali liberati ci sono anche dei “topi nudi”, che difficilmente sopravvivranno in un ambiente non protetto. Oltre a loro ci sono gli altri animali, il cui destino appare incerto. Gli attivisti parlano di adozione, anche se sembrano dimenticare le difficoltà e i ripensamenti perfino con animali che ci sono più familiari di topi e conigli, cioè i beagle di Green Hill.
A parte il destino degli animali, quali sono le conseguenze dell’occupazione di sabato? Hermione e Piermatteo lo hanno raccontato qui: “hanno letteralmente buttato anni di ricerca e migliaia di euro di animali e lavoro. E cosa ancora peggiore, quello di cui gli animalisti non si rendono conto, è che in pratica hanno condannato quegli animali a morte con le loro mani. Si tratta di topi e conigli abituati a vivere in condizioni rigorose, con un sistema immunitario che non è mai venuto a contatto con il mondo esterno. Come se non bastasse, in queste ore sono state pubblicate immagini di topi “nudi” (topi che per natura hanno le difese immunitarie gravemente compromesse), orgogliosamente esposti all’ambiente esterno. Gli animalisti non hanno capito che la loro non è una vittoria: l’unico motivo per cui hanno potuto portarseli via era perché ormai il danno era stato fatto, gli animali contaminati, la ricerca andata in fumo. In quel dipartimento si progettavano nuovi vaccini, si studiavano virus, si producevano anticorpi monoclonali. E ora è tutto perduto”.
I ricercatori e gli associati dell’Istituto di Neuroscienze del CNR, sezione di Milano, hanno scritto una lettera: “Il danno arrecato, difficile da quantificare ma nell’ordine delle centinaia di migliaia di euro, va però ben oltre la perdita degli animali illegalmente asportati, in quanto gli animalisti hanno tolto i cartellini a tutte le gabbie, rendendo non più identificabili gli animali e di fatto mandando in fumo il lavoro di anni di ricerca scientifica e i finanziamenti relativi. Le ricerche riguardano in gran parte malattie del sistema nervoso, per le quali vi è un disperato bisogno di cure, attualmente non disponibili: autismo, malattia di Parkinson, di Alzheimer, Sclerosi Multipla, Sclerosi Laterale Amiotrofica, sindrome di Prader-Willi, dipendenza da nicotina; le nostre ricerche sono finanziate da enti nazionali e internazionali tra cui Telethon, AIRC, NIDA, Fondazione Cariplo, Fondazione Mariani, Fondazione Sclerosi Multipla, Comunità Europea , Ministero della Ricerca, Ministero della Sanità, Regione Lombardia. I finanziamenti sono ottenuti mediante processi di valutazione rigorosa e i risultati sono pubblicati nelle migliori riviste internazionali nel campo.” Sui danni involontari si legga anche Quando gli animalisti uccidono (senza rendersene conto).
Anche Nature racconta l’occupazione e elenca i danni, manifestando anche sorpresa per il mancato arresto degli attivisti: “No arrests have been made following the 12-hour drama, which took place on Saturday, although the university says that it will press charges against the protesters. The activists took some of the animals and were told during negotiations that they would be permitted to come back later and take more.” (L’Università di Milano e il CNR hanno denunciato gli attivisti). La discussione sulla sperimentazione animale è una delle più esacerbate, di quelle in cui è quasi impossibile parlarsi. Già la scelta – consapevole o no – di usare la parola “vivisezione” si porta dietro una condanna immediata e quasi sempre priva del tempo e della voglia di ascoltare le implicazioni della propria posizione. E la strategia della connotazione negativa emerge anche da una banale domanda: questi attivisti condannano solo la dissezione? No, certamente no, condannano ogni tipo di sperimentazione, ma usano il termine “vivisezione” per denotare un dominio molto più ampio e per caricarlo della repulsione immediata che quella parola evoca.
Si può condannare la sperimentazione animale ovviamente, ma si dovrebbe cercare di farlo senza sottrarsi alle questioni scomode. Come si può leggere nella lettera al sindaco di Milano che accompagna una petizione sul nuovo Regolamento comunale per la tutela e il benessere degli animali: “Il testo, infatti, segue la nuova “moda” di questo ultimo periodo e si arroga il diritto di dare giudizi sommari sull’utilità della sperimentazione animale e sul parere della comunità scientifica in merito. […] Se si vuole impostare un discorso generale sulla sperimentazione animale la si ponga su un piano etico, ma non sul piano scientifico, perché per quello esiste già una comunità internazionale severissima.”
Sarebbe ben più efficace e comodo usare l’arma del “non funziona!” – che poi non è chiaro quale sarebbe il motivo per cui i ricercatori dovrebbero ostinarsi in qualcosa di inutile, fatta eccezione per la caricatura dello scienziato pazzo – ma è solo una comoda bugia. Scegliendo la questione morale ci sarebbero altri pericoli in agguato, sebbene meno definitivi rispetto al primo tentativo: rifiutare il ricorso alla sperimentazione animale per ragioni etiche implicherebbe la rinuncia di ogni uso da parte nostra degli animali (o almeno un tentativo molto prossimo alla rinuncia), partendo dall’alimentazione e arrivando alla pet therapy, passando per le pelli e le pellicce. Indimenticabile, a questo proposito, la bizzarra gerarchia suggerita dal manifesto “La coscienza degli animali” proposto da Vittoria Maria Brambilla. È necessario promuovere – si legge – “un’azione di sensibilizzazione contro l’uccisione di animali per ricavarne capi di abbigliamento, come le pellicce”, mentre la “vivisezione” va vietata perché “priva di reale validità scientifica”. Le pellicce, per Brambilla e i firmatari del manifesto (tra cui si trovano sorprendentemente Umberto Veronesi e Margherita Hack), sembrano essere più importanti della ricerca scientifica.
Parlo con una biologa e ricercatrice universitaria dell’occupazione di sabato e del clima che circonda la sperimentazione animale. Fa ricerca di base sul funzionamento dei geni del cervello e ha bisogno dei modelli animali per capire in che modo i geni causano le malattie genetiche e il cancro e come potremmo curarli. Mi ha chiesto di mantenere l’anonimato per ragioni prudenziali e per non coinvolgere i ricercatori con cui lavora. Proprio all’inizio della nostra chiacchierata si sofferma sulla parola “vivisezione”, usata per rinforzare l’idea sbagliata che la ricerca che coinvolge gli animali sia una tortura fisica – idea alimentata anche dall’iconografia contro la sperimentazione animale.
Noi facciamo un compromesso dal punto di vista morale, ma questo non implica la sofferenza gratuita degli animali. Firmiamo protocolli rigorosi e prima di poter usare un animale ce ne vuole. La maggior parte delle ricerche poi non implica alcun dolore. È ovvio che usiamo gli animali nel nostro interesse (in quanti altri casi lo facciamo?), ma la rappresentazione raccapricciante del nostro lavoro è sbagliata e strumentale. Io stessa avrei problemi nel fare esperimenti dolorosi. Mi fermerei prima. Ed è anche la legge a dare indicazioni del genere. Nella mia esperienza ho incontrato solo un esperimento (un protocollo in deroga) in cui c’era il rischio di un minimo di sofferenza. C’è una tale ignoranza in giro rispetto a quello che noi ricercatori facciamo. In piazza l’altro giorno c’erano tante persone che dicevano “però è brutto se torturano gli animali”, ma su questo siamo tutti d’accordo. Nessuno deve torturare gli animali.
Quel compromesso morale serve per capire e curare – continua la ricercatrice – perché non c’è cura senza comprensione e non c’è comprensione senza lo studio degli animali. “Come capiamo se un farmaco ti fa male, oppure se funziona? O come comprendiamo il funzionamento dei geni del cervello per cercare di rimediare alle malattie neurodegenerative?”. C’è anche un piano di implicazioni e di coerenti conseguenze. “Quanti di quelli che urlano in piazza contro la sperimentazione animale usano gli antibiotici? Sta a noi, come esseri razionali, affrontare questo dilemma: che scelta vogliamo fare? Curare le persone o rinunciarvi? Noi scegliamo la prima. Limitiamo al massimo il numero di animali coinvolti, ma la sperimentazione animale è necessaria, non c’è ancora una valida alternativa. Non puoi pretendere allo stesso tempo un farmaco sicuro e il non coinvolgimento degli animali. Se rifiuti la sperimentazione devi accettare di non essere curato, oggi e in futuro. Se vuoi non usare gli animali, devi essere disposto a prendertene le conseguenze. È una decisione morale, ripeto. Gli allevamenti in batteria fanno molta più paura dei nostri stabulari.
C’è un’altra questione: i fondi destinati alla ricerca – quelli sprecati da dimostrazioni come quelle di sabato – spesso vengono da donazioni private (il ministero supporta poco la ricerca). Da persone che hanno comprato le azalee nelle piazze, hanno lasciato offerte nei supermercati o hanno mandato versamenti agli enti di ricerca no profit. Non solo il nostro lavoro e il nostro tempo vanno sprecati, ma tutti questi investimenti. Tutte quelle persone hanno dato i propri soldi nella speranza di trovare terapie per patologie incurabili e mortali. Io e le persone che lavorano con me ci sentiamo responsabili di non sprecare queste donazioni. E siamo un po’ scoraggiati. Arrabbiati, anche, e frustrati perché è impossibile parlare con chi si dichiara nostro avversario. È difficile ribaltare questa descrizione falsata della ricerca e della scienza che evoca orrore e torture”.