Come creare un universo con la matematica
Nel 1915 Albert Einstein applicò la nuova matematica che gli era servita per sviluppare la teoria della relatività allo studio dell’universo. Ne venne fuori una descrizione del cosmo sintetizzata da un’equazione che teneva conto del ruolo decisivo della gravità ma che, risolta, restituiva una soluzione abbastanza eccentrica: l’universo non era statico e immutabile, eterno, senza inizio né fine, ma sembrava sottoposto a un’espansione dello spazio. La cosa ad Einstein non piacque affatto, perché implicava un universo in mutamento e quindi molto probabilmente anche una sua origine fissata nel tempo. Com’è noto, Einstein introdusse un termine matematico – il cosiddetto “termine cosmologico” – che bilanciava la situazione e restituiva un universo statico. Sembrava tutto risolto, ma quell’episodio fu solo il primo di una lunga serie di soluzioni alle equazioni che avrebbe inaugurato un nuovo filone di studio, la cosmologia, attraverso il quale poter costruire modelli di universi semplicemente risolvendo equazioni.
Universi in espansione
Una storia ricostruita da John D. Barrow, cosmologo e matematico all’Università di Cambridge, al Festival della Scienza in corso in questi giorni a Genova, storico appuntamento per la divulgazione scientifica giunto alla sua decima edizione. Nella sua lectio magistralis intitolata, semplicemente, “Universi”, e ispirata al suo ultimo best-seller, Il libro degli universi (Mondadori), Barrow racconta la storia dei modelli di universi elaborati nel corso del XX secolo, a partire dal primo, quello di Einstein perfezionato dall’olandese De Sitter e noto appunto come “universo di Einstein-De Sitter”. Negli anni ’30, ogni estate, i due grandi fisici si incontravano al Cal Tech di Pasadena, negli Stati Uniti, dove passavano ore davanti a una lavagna a scrivere e risolvere equazioni capaci di descrivere un intero universo. A quell’epoca però era già in corso una rivoluzione prodotta dalle osservazioni del redshift delle galassie lontane dalla nostra compiute da Edwin Hubble, un astronomo che con la teoria faceva un po’ a pugni (era del resto anche un buon pugile), ma che avrebbe avuto il merito di scompaginare tutte le tradizionali idee cosmologiche accettate fino ad allora.
Negli anni ’20, dall’osservatorio astronomico di Mount Wilson, in California, Hubble aveva scoperto un curioso spostamento verso il rosso delle righe spettrali delle galassie. Lo spostamento verso il rosso, o redshift, era un fenomeno già noto nello studio delle onde elettromagnetiche e derivava dall’allontanarsi della fonte nello spazio. Nel 1929 Hubble diede conto di quell’osservazione con l’unica spiegazione possibile: l’universo si stava espandendo. Una tesi che prima di Hubble era già stata sostenuta a livello teorico dal russo Aleksandr Friedmann, che risolvendo a sua volta le equazioni di Einstein affermò per primo che l’universo potesse aver avuto un inizio e potesse quindi avere anche una fine nel futuro. Le soluzioni di Friedmann non piacquero affatto ad Einstein, che inizialmente affermò che dovessero essere sbagliate. Ma la matematica usata dal collega russo non aveva nulla che non andasse. Semplicemente, per l’epoca le sue soluzioni erano in disaccordo con le idee dominanti.
Universi senza fine?
Anche un altro teorico, il fisico e prete belga Georges Lemaitre, aveva trovato delle soluzioni alle equazioni che presupponevano un inizio dell’universo. Lemaitre era favorito dal fatto che, nella sua concezione cristiana della natura, doveva esistere un momento della Creazione, come del resto sosteneva la Bibbia. Lemaitre fu quindi particolarmente soddisfatto nello scoprire che le equazioni einsteiniane non impedivano un modello di universo con un inizio nel tempo. Egli parlò di “atomo primordiale” per definire il momento della nascita dell’universo: era la prima ipotesi del Big Bang, che di lì a poco le osservazioni di Hubble avrebbe confermato. A quel punto per Einstein c’era poco da fare se non accettare la realtà dei fatti, e cioè che l’universo non era né eterno né immutabile, ma aveva avuto un inizio ed era in fase di espansione.
In quelle giornate
a Pasadena, davanti alla lavagna, Einstein e De Sitter provarono a spiegare questa nuova situazione trovando delle soluzioni alle equazioni che davano conto di un universo in espansione con un inizio nel tempo ma senza una fine: l’espansione sarebbe durata per sempre, perché la spinta della “creazione” sarebbe stata sufficiente a contrastare la tendenza dell’attrazione gravitazionale verso un ripiegamento dell’universo su se stesso, una contrazione. Altri studiosi si divertivano a creare universi sulla carta, come quello ciclico di Tolman, che prevedeva un universo oscillante e ciclico, che periodicamente si espandeva e si contraeva, per poi ricominciare daccapo (proprio Barrow nel 1995 dimostrò che applicando la seconda legge della termodinamica a questo modello, alla fine i cicli si allungano fino ad averne uno che non si contrae più, come potrebbe essere il nostro); o come il modello di universo a rotazione di Kurt Gödel.
Universi inflazionari
Ma il modello di Einstein-De Sitter rimase la migliore spiegazione del nostro universo per quasi sessant’anni. Poi, negli anni ’80, un giovane fisico americano, Alan Guth, se ne uscì con un nuovo modello che permetteva di spiegare un sacco di dilemmi irrisolti della cosmologia, tra cui quello della sua omogeneità e della sua apparente vicinanza a quella soglia critica tra contrazione ed espansione. Guth sostenne che nei primissimi istanti dell’universo si fosse verificata una straordinaria espansione inflazionaria, tale da far aumentare le dimensioni dell’universo di diverse volte in pochi nanosecondi. Un’ipotesi davvero eretica che sembrava destinata a restare sulla carta, come tanti altri modelli di universo, finché pochi anni dopo i primi studi sulla radiazione cosmica a microonde – il cosiddetto “eco” del Big Bang – rivelarono delle tracce che confermavano la teoria dell’inflazione.
Cosa aveva prodotto quell’iniziale espansione accelerata? Probabilmente un campo scalare in cui agì una particella, l’inflatone, capace di produrre una sorta di antigravità, che invece di contrarre la materia su se stessa ne favorisce l’espansione. Nel 1998 le osservazioni indipendenti di due gruppi di ricerca a guida americana portarono infine a una nuova rivoluzione della cosmologia: come Hubble nel 1929 aveva prodotto prove incontrovertibili sul fatto che l’universo fosse in espansione, Saul Perlmutter e Brian Schmidt addussero prove incontrovertibili sul fatto che l’universo attuale fosse in una fase accelerata di espansione. Che cosa sta accelerando l’universo? Forse qualcosa di simile all’inflatone, una componente antigravitazionale. Oggi i fisici credono che la spiegazione più probabile di questo fenomeno sia la stessa che Georges Lemaitre aveva per primo avanzato molti decenni fa: e cioè che introducendo il termine cosmologico di Einstein nelle sue equazioni si può avere un modello di universo che dopo un’iniziale fase di decelerazione inizia ad accelerare la sua espansione, sotto l’effetto di una componente che potrebbe essere l’energia quantistica del vuoto. Così, ancora una volta, saranno le teorie scritte su un pezzo di carta, le equazioni risolte su una lavagna in un’aula universitaria, a spiegare meglio delle osservazioni com’è fatto il nostro universo.