Chi mangia fuori casa ha livelli superiori di ftalati nel corpo: perché fanno male

Le persone che mangiano spesso fuori casa, al ristorante, al bar o nei fast-food, hanno livelli di ftalati nel sangue che potrebbero essere potenzialmente pericolosi per la salute: questi composti chimici presenti nelle materie plastiche infatti agiscono come ormoni femminili disturbando lo sviluppo dei genitali e confondendo il nostro corpo.
Mangiare fuori vs a casa. I ricercatori hanno messo a confronto l'esposizione agli ftalati nelle persone che dichiarano di mangiare spesso fuori casa, rispetto a coloro che invece amano cucinare e hanno scoperto che le prime hanno livelli di queste sostanze chimiche superiori del 35% rispetto alle seconde e tutto ciò rappresenta un potenziale rischio per la salute. “La nostra scoperta suggerisce che mangiare fuori potrebbe rappresentare un importante fonte di esposizione agli ftalati” spiegano i ricercatori della George Washington University.
Lo studio. Per giungere a queste conclusioni, gli esperti hanno raccolto dati tra il 2005 e il 2014 da 10.253 persone delle quali sono state studiate le abitudini alimentari. Dai dati raccolti è emerso che:
- esiste una chiara associazione tra i livelli di esposizione agli ftalati in coloro che mangiano fuori casa, in particolare negli adolescenti
- gli adolescenti che mangiano spesso ai fast-food o che consumano cibo fuori casa hanno livelli di ftalati il 55% superiori rispetto a coloro che mangiano a casa
- alcuni alimenti, in particolare cheeseburger e panini, contengono maggiori quantità di ftalati
Perché è un rischio. Quando parliamo di ftalati ci riferiamo a composti chimici presenti nelle materie plastiche (confezioni, guanti, e altri prodotti spesso utilizzati nei bar e nei fast-food per impacchettare gli alimenti) che, come mostrano studi passati, possono provocare disturbi alla fertilità maschile e allo sviluppo del feto. Questi infatti agiscono come estrogeni nel corpo, ormoni femminili, confondendo e disturbando lo sviluppo.
Attenzione però. Lo studio in questione, intitolato “Dietary sources of cumulative phthalates exposure among the U.S. general population in NHANES 2005-2014” e pubblicato su Environment International, non dimostra esattamente quali siano le conseguenze dei livelli riscontrati, né se siano effettivamente pericolosi: per capirlo saranno necessari ulteriori indagini.